31 agosto 2017

Esilî

Giorgio De Carolis era un alieno. Il motivo per cui l’avevano spedito lontano da casa sua, dal luogo in cui era nato e cresciuto, non gli era in effetti noto; adesso, in ogni caso, abitava sulla terra. Gli era stato raccontato che quelle spedizioni o espulsioni avvenivano di tanto in tanto, ogni due o tre generazioni, ufficialmente per eliminare l’eccesso di popolazione che poteva minacciare le risorse del suo pianeta natale. Sulla Terra, girando per biblioteche, Giorgio aveva trovato echi di una vicenda simile nel costume italico della primavera sacra; sulle prime si era rallegrato della propria scoperta - e della propria sagacia ed erudizione -, ma poi, non potendo parlarne a nessuno, aveva smesso anche di pensare alla cosa. D’altra parte, il fatto che venissero allontanati individui singoli, e mai gruppi, costituiva una differenza fondamentale rispetto a quelle antiche migrazioni; ma questo, si mormorava, avveniva per evitare di creare sacche omogenee di scontento e di pressione che avrebbero anche potuto complottare contro la madrepatria, magari rivelandone l’esistenza sui distanti mondi che avevano appena raggiunto.
Non si può dire, in ogni caso, che Giorgio fosse stato abbandonato (qui conviene aprire una parentesi: Giorgio De Carolis si chiamava così per una casuale assonanza del suo identificativo alieno con quel cognome diffuso soprattutto nel Centro Italia; il nome, invece, l’aveva scelto lui perché gli piaceva). La sua terra d’origine gli aveva trovato un’identità, una sistemazione, e in più gli forniva ogni mese sul conto in banca una somma ben superiore a quella che comunque gli garantiva il suo posto di lavoro - amministrativo in un liceo linguistico; in qualche modo la burocrazia aliena e quella terrestre avevano dialogato bene in questo campo. Il problema era, semmai, l’alimentazione. Sul suo pianeta Giorgio era abituato alla distribuzione mensile di un’enorme quantità di cibo, da consumare in un solo pasto; a quell’unico pranzo avrebbe poi fatto seguito, sulla sua lontana galassia, qualche giorno di letargia e settimane e settimane di duro lavoro senza distrazioni e perdite di tempo. Il governo centrale aveva deciso da millenni che quello era il miglior modo di vivere e alimentarsi e il metabolismo locale si era evoluto in quella direzione. Purtroppo sulla Terra a Giorgio mancava il tempo e la maniera di preparare un manicaretto paragonabile; e non c’erano, soprattutto, pietanze adatte a quello scopo, mentre ogni cosa sul suo pianeta natale era pensata per adattarsi in maniera ottima a quel rito. Così, dopo una serie di tentativi diversi, tutti falliti, Giorgio si era deciso a divorare le ciccione. Le avvicinava in certi locali che aveva individuato nel corso degli anni, le corteggiava, le portava a casa e le mangiava, avviluppandole e poi inglobandole pian piano. La cosa era positiva dal punto di vista nutrizionale, dato che la carne umana, o quel particolare tipo di carne umana, si avvicinava molto al pappone di acqua, fibre e proteine che gli appioppavano sul suo pianeta; in più, tra tutte le sparizioni che potevano avvenire e sicuramente avvenivano in città, per lo più non a causa di Giorgio e dei suoi appetiti, quella di una ragazza timida e obesa ogni mese si notava ben poco: nessuno pareva conoscerle, apprezzarle, sentire la loro mancanza. Se ne andavano in silenzio, come in silenzio erano vissute. Anzi, Giorgio aveva notato che per un momento il suo corteggiamento pressante e deciso - aveva fame - le rendeva felici: quando credevano che quell’uomo le voleva davvero quelle donne si illuminavano di gioia e sorpresa (Giorgio non lo diceva per consolarsi o assolversi; non c’erano, sul suo pianeta, tali concetti e tali esigenze. È solo che le cose stavano così). Salivano a casa sua per fare l’amore con un cuore così colmo di gratitudine che mangiarle non era soltanto un delitto, era prima di tutto un tradimento. E i tradimenti erano conosciuti e condannati anche nello spazio profondo, e Giorgio, satollo e mostruoso com’era dopo aver consumato l’omicidio, un poco ne soffriva.
Per il resto, la sua dieta gli consentiva di ridurre al minimo i contatti umani (per quanto si potesse parlare di contatti umani riguardo alle relazioni di Giorgio) con i suoi colleghi. Non partecipava alle cene, prendeva raramente il caffè o l’aperitivo al bar, solo una manciata di volte si era fatto coinvolgere in feste e calcetti; viveva appartato, come forse è naturale per chi è diviso da una diversità così irriducibile, e gli capitava soltanto, non più di un paio di volte al mese, di recarsi in quei locali di musica latino-americana senza lo scopo di approcciare una cicciona. Peraltro in quei rari casi era lui stesso il primo a chiedersi cosa l’avesse spinto a presentarsi in quel posto: e non gli era chiaro se si stesse costruendo un alibi, si stesse invece scoprendo, o se fosse solo lì per divertirsi.
Una sera però aveva fame. Il motivo della sua presenza nel locale gli era dunque chiarissimo. Allo stesso modo erano chiarissimi, di un celeste inevitabilmente buonissimo e ingenuo, gli occhi della ragazza che adocchiò subito, appena entrato nel locale. Era, come doveva essere, grassa; ma si muoveva bene, pareva perfino contenta di sé, cosa che a Giorgio parve sorprendente e che quasi lo fece desistere dall’approcciarla. Lo convinsero tuttavia gli occhi di lei: i quali erano non soltanto celesti e ingenui, ma soprattutto bovini, ciò che lo persuase che si trattava di una ragazza grassa e infelice come tutte le altre, inesistente come tutte le altre e come tutte le altre, in fondo, mangiabile.
Ballarono, poi lui le chiese di uscire; fuori, nel giardinetto del locale, lui le avrebbe chiesto di fare l’amore, lei le avrebbe detto di sì, lui l’avrebbe portata a casa e mangiata. Tutto questo lui lo pensò mentre la teneva per mano e l’accompagnava fuori, in un attimo, e non senza un qualche rammarico; non tanto per l’omicidio, quanto per la natura effimera delle cose, che per la prima volta lo addolorò (stava forse diventando troppo terrestre).
Solo che lei gli disse di no, che non avrebbe fatto l’amore con lui; e prima ancora che lui avesse il tempo di stupirsi e di smarcarsi, lo baciò con foga. Poi gli disse in un orecchio che aveva le mestruazioni e, mentre ancora aveva la bocca sull’orecchio di lui, gli aprì la patta dei calzoni. Poi si abbassò, lì in quel giardinetto scuro e fetente, e prese in bocca quello che, nella condizione di esiliato stellare di Giorgio, era tutto sommato un pene umano. Giorgio non seppe che cosa pensare. Più tardi, senza davvero rifletterci, disse di sì quando lei le chiese, con il brivido di una ragazzina, se si sarebbero rivisti.
Si rividero una settimana dopo, Giorgio la invitò a casa sua. Là, per la prima volta in vita sua, lui fece l’amore. In seguito lei si trasferì da lui; la casa era spaziosa e in un certo senso richiedeva il tocco di una donna. È passato molto tempo da allora; Giorgio si è abituato, non senza sforzi e volontà, a nutrirsi di farro e delle altre cose sane e biologiche che cucina lei, che ha deciso di dimagrire. Ha scoperto che, riempiendosi oltre misura di quinoa e fibre, si ottiene un effetto non troppo dissimile da quello che gli procuravano le precedenti abbuffate, sebbene debba adesso sedersi a tavola con cadenza più che giornaliera (d’altronde non gli dispiace stare a tavola con lei). Lei non vuole figli; lui, appartenendo a un’altra specie, non può averne da lei. Ha comunque pensato che, quando lei inevitabilmente cambierà idea, potrà in qualche modo farsi replicare il Dna dell’organismo di cui ha assunto l’identità arrivando sulla terra e ovviare alla faccenda. Sul suo pianeta lo sapranno fare, pensa Giorgio, e intanto accarezza senza accorgersene l’idea molto terrestre di paternità e di amore.

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