19 aprile 2017

Il secondo ippopotamo più grande d'Europa

Ho incontrato tempo fa - ormai devono essere passati mesi - la macchinina del circo. Si trattava, in realtà, di un’automobile di dimensioni normali, e anzi può darsi fosse un camioncino; ma mi è venuto di scrivere “macchinina” per dare di quel mezzo un’immagine un po’ buffesca, ridicola, che evidentemente associo (a torto) al circo in quanto tale.
Su quell’auto, a meno che non fosse un camioncino, erano montati degli altoparlanti; e la voce faceva pubblicità al circo scalcagnato che era appena giunto nella città dove abito. Può anche darsi, tuttavia, che quel circo non fosse affatto scalcagnato, anzi che io mi sia perso qualcosa col non andare a vederlo, e che me lo figuri difettoso e decadente solo per un mio preconcetto, di cui probabilmente dovrei vergognarmi. In ogni caso la voce vantava, fra gli altri spettacoli e attrazioni, l’ippopotamo più grande d’Europa; e mi è sovvenuto un mio amico, o forse dovrei dire un mio conoscente, che per combinazione era anche (ed è tuttora, per quanto ne so) il secondo ippopotamo più grande d’Europa.
Definirlo conoscente mi risulta a un tempo onesto e doloroso. È onesto, perché io non sono suo amico o non credo di esserlo, e doloroso, perché mi spiace e mi costa non essere riuscito a rimanere tale. Non tutti hanno bisogno di amici: certe persone, per assenza di stimoli o di necessità, si bastano ampiamente. Ma lui, benché fosse vasto, non si bastava. I suoi erano gente onesta, tranquilla, ottusa perfino, sia pure solo in questo senso, che non potevano capirlo; e d’altra parte lui era complesso, o solo troppo grande, comunque impossibile per quei signori buoni e limitati (la madre aveva occhi enormi, acquosi, azzurro chiaro; possibile che sia per quegli occhi azzurri e mansueti che la definisco buona, io che poi non l’ho mai conosciuta davvero).
Uno penserebbe, almeno così mi sembra, che quella di secondo ippopotamo più grande d’Europa sia una condizione che si raggiunge con il tempo, anche lavorandoci un po’ su; ma lui, per quel che ricordo, lui lo è sempre stato. Eravamo piccoli - ma non più per molto: ci trovavamo in quell’età in cui alla spensieratezza dei bambini si aggiunge un vago disagio, indefinito, e i giochi si fanno più frenetici, perché si avverte che qualcosa incombe, qualcosa che tutto muterà -, eravamo piccoli e lui era già il secondo ippopotamo più grande d’Europa. Come tale era noto e presentato, tanto che scrivere il suo nome non aggiunge nulla al racconto, e anzi lo renderebbe impreciso e nebuloso. Piuttosto mi spiace non ricordare il nome di sua sorella, che giocava con noi in quel crepuscolo d’infanzia e che aveva ereditato dalla madre gli occhi celesti e mansueti; più tardi ci piacque, a noi ragazzini di passaggio alla giovinezza, equivocare quell’apparente mansuetudine, di nascosto sempre dal fratello, e credere chissà cosa (senza peraltro che nessuno di noi abbia mai ottenuto conferma delle proprie sciocche fantasie).
Per un’estate, sul limitare estremo della mia e sua infanzia, io e il secondo ippopotamo più grande d’Europa fummo amici. Lui aveva avuto in sorte un ruolo, evidentemente, ma non gli era stato affidato un destino o un’utilità corrispondenti. Forse per questo aveva bisogno di amici: per rivelarsi utile nel momento in cui qualcuno gli avesse voluto bene, o solo per riempire in qualche maniera il vuoto che era il suo destino. Quell’estate io gli fui amico e potei chiamarlo per nome; da amico, infatti, mi era indifferente e insignificante il suo ruolo. Non è che fossimo soli: eravamo anzi un bel gruppetto di amici, ma io e lui eravamo sempre i primi ad uscire, ad andare a chiamare l’altro, e gli ultimi a rincasare. Rimanevamo seduti su una panchina o su un prato finché non era passata da un po’ e non più rimandabile l’ora di cena e del rientro. Senz’altro per questo, e per un’ovvia sovrapposizione a quei ricordi di eventi che furono invece successivi, se ripenso a quell’estate ho in mente un crepuscolo e un muro, un muro vecchio, medievale, su cui cresceva l’erba. Tutti elementi romantici, che pure hanno avuto un fondo di verità.
Io fui il primo a fuggire. Mi chiamò l’adolescenza; passò l’estate e cambiai anche scuola e città. La mia adolescenza fu quella abbastanza tipica di chi si richiude in sé, e a quei pochi che ritiene degni di sapere (o che sceglie per i propri lamenti) comunica che quella solitudine è una costrizione, una prigione imposta da tutti quegli altri che non lo capiscono; quando in realtà non c’è nulla da comprendere, e quell’adolescente è solo un bruco come miliardi di altri bruchi, che si nasconde nel bozzolo per uscirne, anni dopo, uomo fatto. Fatto come, non ha senso indagare qui.
Fui di colpo appartato e lontano e lui di colpo tornò, le poche volte che me lo nominavano o lo nominavo, il secondo ippopotamo più grande d’Europa. Egoista come può esserlo solo un adolescente malinconico, per anni non chiesi e non mi interessai di lui. Perderlo di vista, questo non era possibile, ingombrante com’era; ma feci quanto in mio potere per prenderne le distanze. Oggi che ripenso a lui so con certezza che il mio allontanamento, che era la partenza di un amico, del suo solo amico?, gli tolse senso e utilità, in un età in cui tutti avrebbero diritto a sentirsi necessari. Ma allora pensavo solo a me, e anzi era quello il motivo della mia fuga. Essere solo mi piaceva e mi era indispensabile, e che facesse male a qualcun altro, quando nessun altro mi era visibile, non poteva neanche balenarmi.
Del secondo ippopotamo più grande d’Europa, già mio amico, ho infine saputo, con colpevole e inevitabile ritardo, che si è trasferito in un altro paese; in un altro continente, per essere più precisi. Quando l’ho scoperto mi è sembrato ovvio che stesse fuggendo anche lui, che cercasse di mutare il suo destino confondendosi in un altro ambiente e in un contesto che non gli apparteneva e che non poteva riconoscerlo. Ma quel giorno in cui ho incontrato la macchinina del circo ho cambiato idea: non è il destino, quello che ha voluto cambiare, ma il suo ruolo, quello che l’ha descritto e condannato finora. E vedendo me stesso su quella strada di una città che non è la mia, ma in cui abito, con il mio bambino in braccio e la macchina del circo che ormai gracchiava in lontananza, ho riflettuto che forse era così: che forse è più facile e lieve cambiare un ruolo, e che magari il mio amico aveva ragione.

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