05 agosto 2015

Gabbie

Se un visitatore occidentale fosse giunto, un giorno di mercato degli inizi del secolo scorso, in una città del Turkestan cinese posta ai margini del grande deserto grigio, vi avrebbe certo trovato, in bella mostra sulla piazza principale, una gabbia di legno. All’interno della gabbia il turista o il viaggiatore avrebbe visto - perché c’era effettivamente - un uomo in piedi, con le mani legate dietro la schiena; la testa di costui sporge dalla gabbia, non di molto, attraverso una piccola apertura, che è in realtà un collare: il collo dell’uomo è stretto da quell’apertura che pare falsamente liberarlo, e la testa non può scendere verso la gabbia. Il pavimento della gabbia è formato da diverse assi; ogni giorno ne viene tolta una, cosicché l’uomo all’interno deve sempre più tendersi e infine appuntare sulle dita dei piedi l’intero peso del corpo, perché, se non facesse così, morirebbe di rottura delle vertebre cervicali o di strangolamento. Il viaggiatore che vedesse quella scena la interpreterebbe come la crudele esecuzione di un condannato a morte; e tornerebbe a casa, o telegraferebbe, ché non può la sua indignazione attendere i lunghi mesi del ritorno, invocando una spedizione delle potenze civilizzatrici nel Turkestan cinese, in quella città e nei territori circostanti, per impedire quella vergogna, quella cancellazione dell’umanità, quella negazione di tutto ciò che è progredito e bello, che lui ha visto in quella gabbia.
A quella ipotetica visita, a quell’eventuale richiesta, farebbe seguito l’ingresso dalla strada d’occidente, e forse dal nord, attraverso una nuova ferrovia dai binari larghi, di truppe dagli stivali chiodati e dai larghi caschi coperti di teli bianchi; quelle truppe, decise a distruggere l’arretratezza, distruggerebbero le gabbie di legno, le botteghe del bazar, i padiglioni della fiera, fucilerebbero gli uomini vestiti di bianco che protestassero, e sicuramente quegli uomini protesterebbero, e li fucilerebbero comunque, pur non capendo assolutamente le parole e il senso di quelle proteste, ma equivocandone i gesti o avendone paura. Le prime fucilazioni porterebbero ad accoltellamenti in vie strette e sordidi suburbi, a soldati stranieri spariti e ricomparsi a pezzi; e ogni soldato sarebbero cinquanta o cento uomini in bianco cacciati e ammazzati, le loro case, piene di donne e bambini, violate, i loro quartieri colpiti dai cannoni e spazzati via. Polvere gialla e rossa si alzerebbe da quelle case secolari, e il deserto grigio entrerebbe nella città.
Ma l’uomo che effettivamente è in quella gabbia deve solo dire “Basta, basta! basta così!” e lo tireranno fuori. Non è, come al solito, indubbiamente, un’esecuzione; è uno scherzo stupido di due amici sciocchi o un esperimento sociologico (ma nel Turkestan cinese questa espressione non è giunta e non significa ancora nulla; si utilizza ancora la prima). E quando arriveranno gli scarponi chiodati e le baionette dalla via d’occidente, se dovessero arrivare, quell’uomo sarà in una casina proprio in quel quartiere, dalla parte della periferia che non guarda il deserto, e sorbirà un tè con gli amici, dicendo stupidaggini o commentando il miele con cui hanno preparato qualche biscottino. Lui sarà lì, si toccherà il collo, e intanto a due passi dal suo scherzo stupido i soldati entreranno in città; sulle carte degli ufficiali sarà scritto di cercare le gabbie nella piazza del mercato e fucilare chi ne impedisse la distruzione.
Speriamo allora che quel visitatore non arrivi mai in città, un giorno di mercato, e che per il futuro quegli amici trovino degli scherzi migliori, e che nessuno venga mai stretto per il collo in una gabbia dal pavimento di assi, ogni giorno più lontano, ogni giorno più doloroso.

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