27 settembre 2012

Gli amori (bozza per un racconto lungo)

Multi sunt vocati, pauci vero electi.


Il tenente Federico B. sedeva alla finestra, accanto alle tende polverose. Era notte ormai inoltrata, sebbene non fosse facile stabilire che ore fossero (il tenente si era parzialmente spogliato e aveva lasciato l'orologio d'oro, che il padre gli aveva donato al momento dell’arruolamento, sul mobile di fronte al letto). La luna doveva essere quasi al massimo della propria ascesa, giacché il cielo, dove le nubi erano meno spesse, era illuminato d'un azzurro freddissimo; e le nuvole, quando passavano a coprire quegli squarci, diventavano di metallo a causa dei raggi.
Federico stava alla finestra, il naso lungo ma sufficientemente diritto quasi a contatto del vetro; e il chiarore era tale che un cecchino nemico avrebbe potuto scorgerlo e colpirlo, se solo avesse potuto avvicinarsi a sufficienza. Ma la vecchia villa padronale, in cui si era installata una parte raccogliticcia e confusa del comando regionale dell'armata, era abbastanza lontana dal fronte da escludere un rischio del genere. Nulla impediva invece, durante le rapide puntate offensive che avvenivano su quelle trincee fluide, che un colpo di cannone o di mortaio trovasse la propria via fino alla villa; era già successo in passato.  Ma morire in quel modo sarebbe stata una fatalità e non un'imprudenza, e delle fatalità non ha senso preoccuparsi.
Colui che cercava con lo sguardo era distante decine e decine di chilometri, o forse poche centinaia di metri; forse tornava, o forse una pallottola nemica, sparata controsole alle prime luci dell'alba, l'aveva inchiodato per sempre a una posa stupida, gli occhi socchiusi da miope, e a una uniforme stracciata e non più cambiata per l'eternità. Federico attendeva il ritorno del proprio amico, il maggiore C., che dieci giorni prima il comando aveva spedito a occupare e fortificare la spiaggia non lontana, in previsione di uno sbarco di forze alleate che sarebbe dovuto avvenire nelle settimane successive. Si conoscevano da pochi mesi, da quando - giovani sottufficiali - erano entrati entrambi da volontari, più per l'impulso della giovinezza che per avere compreso o accettato gli ideali della propria fazione, nell'Armata che combatteva quella guerra civile. Insieme avevano trascorso molte notti nel fango e nel gelo in quell'inverno che pareva non finire mai, e insieme erano diventati soldati rispettati, acquistando con le mostrine anche una finzione di vita adulta che non era la loro e che non avevano mai vissuto; giacché della vita non sapevano niente, e anche il loro coraggio tanto ammirato era un coraggio da ragazzi, ignaro di troppe cose.
Ma non era stata la guerra ad avvicinarli: anche in tempo di pace la loro amicizia sarebbe inevitabilmente scoccata, perché non nasceva da contingenze o da gratitudini, ma da una immediata e profonda fratellanza fra due cuori, che le azioni comuni e le lunghe chiacchierate, fatte per lo più per necessità del mestiere e per vicinanza forzata, non avevano mutato né snaturato.
I due, semplicemente, si volevano bene; il piccolo Federico, dai capelli castani, freddo ed estroverso, estremamente bello nell'uniforme grigia, voleva bene a C., emotivo, taciturno, alto e in fama di brutalità; fama comprensibile, d'altronde, in un uomo che apriva bocca coi propri soldati quasi soltanto per spingerli all'assalto e per punirli. E C. ricambiava in tutto quel sentimento, d'altronde senza fatica e quasi senza rendersene conto. Erano diventati ufficiali nello spazio di pochi scontri, per bravura propria e per la falcidie dei vecchi comandanti. Per mesi, quando avevano potuto dormire, si erano sdraiati accanto; ma questa regola, iniziata al fronte e portata avanti tacitamente anche alla villa, dove la stanza di un figlio maschio li aveva accolti entrambi, si era interrotta da qualche settimana.
C. aveva conosciuto Lina. Lei gli si era fatta avanti durante una requisizione di denaro e provviste - contribuzioni volontarie, si chiamavano all'epoca - e davanti a una decina di uomini armati aveva difeso la propria casa e la propria famiglia, esigendo un rispetto e una forma che in tempi di guerra nessuno ricordava più. C. aveva avuto paura di quella donna bionda e dura; anche questa una paura da ragazzino, già innamorata. Poi la famiglia di lei se n'era andata, nascosta in un settore più tranquillo o forse emigrata all'estero, e Lina era rimasta nella casa spoglia, in quella cittadina già più volte persa e ripresa dai due eserciti in lotta. C. andava a trovarla a volte, e allora era lui a portarle piccoli regali sottratti alle cucine del comando. Infine lei lo seguì al comando, dove lavorava da cuoca, infermiera o lavandaia, a seconda delle necessità di quel mondo maschile.
Federico la osservava. Doveva essere più grande di loro - un anno o due; Federico non ammetteva che potesse essere semplicemente più cresciuta, più matura. Aveva un mento duro e largo e guance quasi infossate; gli occhi celesti erano allungati e parevano puntare all'esterno della testa, come le sopracciglia un po' scure. Le orecchie erano troppo grandi, e la cosa si notava quando la donna, intenta al lavoro, legava i capelli. Anche la bocca era larga, però carnosa, le punte della labbra leggermente tese verso l'alto. Anche così era bella. In circostanze normali, pensava Federico, una donna del genere avrebbe preferito lui, tanto diverso e complementare quanto C. le era affine. Ma la guerra evidentemente cambiava anche le leggi dell'amore. Su queste e altre cose rifletteva Federico, a notte fonda, prima di addormentarsi da solo nella stanza del figlio.
La partenza di C. aveva acuito la durezza di Lina. In quei giorni Federico aveva trovato naturale cercare la compagnia di lei, non per confortarla, ché allora non esistevano parole di conforto per nessuno, ma perché lei e lui erano uniti in una stessa attesa e perché Federico era attirato dalla donna, i cui silenzi parevano intrisi dello spirito dell'amico. Era sempre Federico, perciò, a parlare di C. (con discorsi tanto inferiori all'effettiva realtà del loro bene): Lina a volte storceva la bocca, infastidita. Il tenente attribuiva quel disagio alla tensione e alla paura; il suo amore ingenuo non concepiva ancora la gelosia né sapeva riconoscerla. Poi una sera a cena - trenta ufficiali al tavolo e una donna bionda a servirli - erano comparsi, come sputati dalla notte, due messaggeri infangati: gli uomini affidati a C. si erano spinti a Nord, avevano detto, per soccorrere le truppe del generale Manzi, trascinate dal nemico su una penisola sabbiosa e quasi priva d'acqua. Il compito di C. e dei suoi cinquecento soldati era quello di rompere un lembo dell'accerchiamento e lasciar sfilare in quel varco gli assediati: ciò implicava una resistenza di molti giorni contro forze sempre più soverchianti man mano che il fronte si accorciava. Molti occhi si voltarono in silenzio verso Lina: ma lei continuava a servire, imperturbabile nei suoi tratti duri, gli occhi, le labbra, i capelli ugualmente tesi, ugualmente nervosi.
Quella notte Federico le fece visita: ma rimase muto, rassegnato alla legge di lei. Scoprì in Lina una docilità e una sollecitudine mansueta che non si aspettava: l'attribuì alla pena, alla paura, alla tenerezza, all'amore per C. che la donna riversava in lui. E lui sentì di doverla amare di rimando, per fedeltà all'amico e perché non è lecito rifiutare e disperdere l'amore, allo stesso modo in cui è peccato gettare nella spazzatura il cibo preparato da mani affettuose.
Soltanto la mattina dopo il piccolo tenente capì di essere caduto in trappola: se pure in obbligo di accogliere l'offerta d'amore, rifletteva, avrebbe dovuto vedere il frutto avvelenato nella condotta servile di lei, in quella sottomissione che non poteva accettare, perché era usurpazione, era slealtà, era una macchia indelebile davanti agli occhi di C. A quel punto dubitò anche della sincerità dello slancio di Lina, dubitò di averne indovinato la vera natura giudicandolo amore: e seppe di essere due volte colpevole, davanti all'amico e davanti a se stesso.
Più tardi andò in cucina. Si sedette al tavolo a cui stava anche Lina, si tolse i guanti e l'aiutò a pelare patate. Ogni tanto la guardava. Quando l'ebbe osservata a lungo decise che non c'era bisogno di iniziare quel discorsetto che con tanta fatica, lui così sciolto ed estroverso, aveva messo assieme davanti al grande specchio della camera. Sopra lo specchio stava una palma, appesa lassù chissà quante Pasque prima; e in quella casa di soldati anche la palma aveva assunto il colore metallico delle uniformi e dei proiettili di mitragliatrice. Federico pensò che Lina era come quella palma: come quegli ufficiali ragazzi si era fatta d'acciaio, meschina e coraggiosa, pronta a ogni bassezza pur di restare fedele a un proprio codice d'onore; un onore certo personalissimo, ma vivo e coerente, ingenuo come le loro giovinezze. E l'onore di Lina le aveva proibito di amare C. meno di chiunque altro al mondo.
Dietro una porta, picchiettava a gocce larghe e pesanti la pioggia estiva del telegrafo. Federico, che in quei giorni di stasi dei combattimenti nel settore meridionale non aveva compiti di servizio, entrò nella stanza e chiese se ci fossero novità, con un tono tanto distaccato da stupire il telegrafista. Questi ebbe l'impressione che la domanda fosse stata fatta con lo stesso spirito con cui si chiede come va o si parla del tempo, tanto per iniziare una conversazione: come se C. non fosse bloccato dal fuoco nemico su colline melmose a cinque chilometri dal mare, obbligato a tenere quell'impasto di terra e schegge finché Manzi non fosse passato; come se non esistessero quell'ordine, quelle basse colline battute dall'artiglieria, la guerra stessa e tutte le preoccupazioni dell'uomo. Come se non esistesse più l'amicizia. Ad ogni modo, non c'erano novità.
Federico si ritirò in camera. Si svestì in parte, perché faceva ancora freddo e perché voleva essere pronto qualora gli avessero ordinato di guidare il plotone a coprire il ritorno di C. o a recuperarne il cadavere. Poi si addossò alla finestra a scrutare il buio della sera, ben sapendo che la luna l'avrebbe rischiarato, salendo al centro del cielo. Quando fu abbastanza chiaro cominciò ad avere paura delle ombre: in una nuvola, in una sentinella lontana, nella fuga disperata di animali che erano stati domestici Federico vide altrettante coppie di messaggeri galoppanti verso il comando: gli uni annunciavano il ritorno di C., gli altri la sua morte; altri ancora rientravano cantando, e Federico non riuscì a capire se fosse tutta una fantasia o se nel sogno avesse incorporato il coro di due sottufficiali ubriachi, giù nel salone. O il canto di Lina intenta a lavare le camicie di C.
Assieme a quei fantasmi, e quasi altrettanto spettrali nei loro cappotti ridotti a stracci bagnati, giunse anche un manipolo di sbandati. Provenivano dall'esercito del generale Manzi. Dopo una settimana di battaglia disperata, ridotti ormai quasi in riva al mare, avevano avuto il dono inaspettato della rottura dell'assedio. Erano stati fra i primi a gettarsi in quel varco e non si erano più rivolti indietro ad attendere nessuno. Non sapevano quanti altri uomini sarebbero ritornati, né conoscevano la sorte del reparto che li aveva salvati. Furono messi a dormire nella stalla, il cui tepore accolsero con gioia. Quella notte il tenente non li vide neppure.
In nessun momento Federico si augurò la morte dell'amico, e non soltanto per ovvio affetto, ma anche giacché non credeva che questa gli avrebbe evitato spiegazioni e imbarazzi: dal suo punto di vista, dovendo considerare terminata la loro amicizia, che C. fosse morto o vivo non faceva alcuna differenza. In ogni caso era comunque perduto.
Certo lo spaventava il pensiero delle battaglie che avrebbero combattuto insieme e delle lunghe nottate che avrebbero trascorso fianco a fianco sui pancacci e sui giacigli di fortuna. La convivenza gli pareva insopportabile, ora che alla loro tavola di inseparabili venivano a sedersi anche le loro colpe: quelle di Federico, che non aveva capito nulla, e quella di C., che aveva lasciato l'amico solo.
A tratti lo atterriva la durezza di C., che era stata pesante in condizioni normali (anzi: nelle condizioni idilliche di un'amicizia fra due giovani uomini) e che forse sarebbe stata in grado di schiacciare un colpevole. In altri momenti, in parte cedendo al sonno, si figurava C. vivo o morto ma comunque muto, e lui, in guanti bianchi, costretto a spiegare a quell'idolo imperturbabile le proprie mancanze di piccolo essere umano. Ma non gli uscivano che suoni senza senso, sillabe ripetute all'infinito, deliri.
In quell'agitazione, si addormentò o piuttosto cadde in un sonno scuro. Dovette dormire un'ora scarsa, perché al suo risveglio la luce della luna non era mutata di molto.
Il suo primo pensiero da sveglio fu che l'amico stava tornando: ne gioì. Non aveva dimenticato le paure di poco prima, ma non gli parevano più valide. La sua amicizia con C., in realtà, non era mai nata e non poteva morire. Non erano diventati amici in seguito a un avvenimento particolare o per via di un comune modo di sentire; c'era nel cuore di entrambi un sentimento che durava da sempre e che avevano riconosciuto e chiamato amicizia solo dopo il loro incontro. Ma non era stato il loro incontro a creare quella passione; questo ora era chiarissimo al piccolo tenente.
Perciò, che C. fosse vivo su un camion, accanto ai lamenti di un ferito, forse ferito anch'egli, o che giacesse sulle colline con la bocca piena di fango, non contava più: la loro amicizia viveva. E sarebbe vissuta nel cuore di Federico fino al suo ultimissimo battito, e forse un attimo dopo, quando già l'anima si avvia alla bocca.
Anche se il giorno era lontano, Federico si lavò e si preparò con cura. Quel momento tanto atteso, che ora percepiva vicino, lo rinfrancava e lo rendeva più pronto e sollecito. Si chiese se Lina si sarebbe sentita, se si sentiva sola. Non seppe darsi una risposta: il suo cuore gli era precluso e inconoscibile. In questo Lina differiva da tutti gli ufficiali della villa.
Dal limitare della caligine bianca e fittissima che saliva dal fiume lontano uscirono, sul principio fatti anch'essi di nebbia, poi man mano guadagnando la natura umana, messaggeri vestiti di grigio. Federico abbottonò l'uniforme dello stesso colore e scese incontro all'amico.

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