27 giugno 2012

Sommerabendsspaziergang

L'uomo uscì dalla stazione, lo zaino su una sola spalla per sudare meno. Fuori dell'atrio, lo accolse il sole.
Era una sera d'inizio estate, illusoria come lo sono tutte quelle sere, perché lasciano credere che ci siano ancora ore di luce da vivere e godere; quando invece è già tempo di tornare ai propri domicili, a volte quasi di corsa, prepararsi da mangiare e andare a letto. E il giorno dopo ancora al lavoro, senza domande e senza recriminazioni, al sorgere di un giorno di cui si sarebbe vista solo la fine. Ma le cose dovevano andare così, ed era normale e quasi rassicurante.
L'uomo, obbediente, si diresse a casa, camminando all'ombra di un viale alberato.
Al primo incrocio, però, di nuovo il sole lo sorprese: ma a quell'ora i raggi laterali, anche se caldi, erano gradevoli. L'uomo si fece allegro e cominciò a rimuginare fra sé quelli che si chiamano "pensieri leggeri". Non comprese o non rifletté in quel momento che quei raggi erano già moribondi (l'estate è una stagione morente, in cui pian piano si secca e incattivisce la freschezza della primavera), sebbene morissero di pochi minuti alla volta, sebbene quei minuti - ancora - fossero senza importanza.
Gli venne in mente, invece, un dialogo con un ignoto interlocutore a proposito delle polo (portava una polo): nella conversazione lui analizzava con arguzia i vari tipi di polo, e in particolare i modelli a due o tre bottoni; quest'ultimo modello era bocciato inappellabilmente, in quanto, se uno ci pensa, non c'è modo di combinare l'allacciatura di tre bottoni su una polo senza apparire assurdi o inadeguati. Poco dopo aver portato trionfalmente a termine questa conversazione immaginaria, l'uomo si accorse con singolare lucidità, ma senza sentimenti di alcun genere, che da un po' di tempo non pensava più a nulla.
Forse per la stanchezza o per la stagione, proprio lui, che era un tipo di norma riservato, a volte riflessivo, occasionalmente perfino acuto, dovette prender atto di essere completamente vuoto. La cosa non lo sorprese: andava così, e tanto bastava. Lo colpì di più un profumo improvviso, buono, che gli arrivò mentre camminava sotto gli alberi; gli parvero acacie - ma portavano ancora i fiori? - sparse in un qualche giardino che non vedeva. Di certo era un odore primaverile, giacché l'estate non ha profumo; o, se ne ha, sono odori forti e già quasi marci. Gli alberi sotto cui passava (ne strappò una foglia per sincerarsene) non sapevano di nulla.
Attraversò la strada sulle strisce pedonali; un'auto lo aspettò per qualche secondo (due pedoni erano passati un momento prima) e lui la ringraziò, non tanto per i secondi guadagnati, quanto perché gli era stata risparmiata l'umiliazione di quando le auto ripartono sgommandoti in faccia. Lo infastidiva l'umiliazione e la necessaria sottomissione, in ogni circostanza; era uno strano tipo di orgoglioso, poco competitivo e poco rancoroso, che non aveva problemi ad accettare la propria inferiorità nei confronti di qualcuno (che fosse per mancanza di intelligenza, di impegno, di mezzi, di fortuna), ma che non sapeva sottomettersi. La differenza, tuttavia, è sottile, e neanche lui sapeva sempre tratteggiarla con esattezza.
Entrò in un parco, ormai vicino a casa. Si sedette su una panchina, da solo: a volte gli pesava non avere amici in quella città in cui si era trasferito da poco, ma stavolta andava bene. Non aveva nulla da dire a nessuno. Tornò con il pensiero alla propria assenza di pensieri. Ma a cosa non pensava, si chiese? Non pensava soprattutto, e prima di ogni altra cosa, a quello cui un giovane pensa sempre; per lui invece era come se quello stimolo non esistesse più, almeno a livello conscio.
Da molto tempo ormai non aveva una relazione, o una simpatia, o un qualcosa che stesse a metà; da molto tempo viveva ignorando quel bisogno. Non che gli mancasse il sesso: quello si può sempre trovare, e lui non era brutto né vergognoso. Ma il resto - l'amore, la condivisione -, il resto semplicemente non c'era. E non ci pensava più, in un certo qual modo.
Si accorse, quasi d'improvviso, di essere molto solo. La cosa però, gli parve, non gli pesava, anzi: si sentiva sereno, nonostante tutto. Non felice: la felicità è un'altra cosa, anche se lui certo non avrebbe saputo definirla (ma l'avrebbe tuttavia riconosciuta; o almeno credeva). Finì per giudicare perciò quella sua condizione paradossale come il segno di una maturità finalmente raggiunta, e se ne compiacque con se stesso.
O forse, invece, gli balenò infine alla mente, forse la felicità è solo questo: perenne vivere, senza domande, senza pensieri, senza pentimenti.

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