02 settembre 2011

Verso la città di C.

Nessuno mi ha mai spiegato dove sia fissato il punto della propria esistenza oltre il quale si smette di essere una ragazza e si diventa una donna. Immaginando, con una metafora piuttosto abusata, che la vita umana sia una strada, quel momento di passaggio dev'essere un vecchio cippo in pietra con una breve epigrafe poco leggibile, oppure un grande cartello appena ridipinto che annuncia che si sta lasciando il territorio della giovinezza in favore di quello della maturità. Personalmente, ho deciso di esser diventata donna nel momento in cui la mia routine quotidiana si è modellata su quella del mio lavoro, e come questo è diventata piatta e priva di sorprese. Ho un buon lavoro e una buona vita, di cui certo non mi lamento, ma che hanno smesso di sorprendermi. O forse doveva necessariamente andare così, e non c'è altro modo valido per diventare grandi.
Solo qualche tempo fa mi è capitato, in via del tutto eccezionale, di incontrare un breve tratto sconnesso sul perfetto selciato della mia vita. Dovevo recarmi in un'altra città per lavoro, a visitare una fiera e ad incontrare certi clienti che il mio capo considerava irrinunciabili: in ufficio mi consegnarono un biglietto del treno e la prenotazione di un albergo di lusso, e mi ripeterono che facevano molto affidamento su di me. Io, da parte mia, ero soddisfatta sia della stima che mi veniva espressa sia della breve e inattesa vacanza.
Quando giunsi in stazione albeggiava a stento. Forse per questo, o per la particolare architettura liberty dell'edificio (simile peraltro a quella di tante altre stazioni), ebbi quasi l'impressione di addentrarmi in un'altra dimensione e in un altro tempo, lasciando il dominio della plastica e del frastuono onnipresente per quello del ferro bruno e dell'ipnotico brontolare dei binari. Salita sul treno, constatai che non c'erano molti altri viaggiatori nel mio vagone e ipotizzai che fosse per l'ora o per il costo del biglietto di prima classe. Di fronte a me c'era soltanto un signore grassoccio, sulla sessantina, dall'espressione del viso piuttosto corrucciata e con il naso rosso e irritato, come un bambino che non abbia perduto il vizio di infilarci le dita e che si sia per di più buscato un raffreddore. I capelli erano grigi, tagliati corti, quasi a spazzola: anche questo contribuiva all'illusione infantile. Sotto a questo viso ben poco autorevole stava invece un bell'abito sartoriale, grigio fumo. Si trattava quasi certamente di un industriale che andava in prima persona a curare i propri affari.
Avevo fatto colazione prima di uscire di casa, e quando il treno si mosse non potei riprendere sonno. Mi trovai perciò col volto attaccato al finestrino, intenta a fissare il paesaggio che si schiariva e perdeva gli ultimi contorni irreali della notte. Passammo una, due stazioni, e nessuno venne a sedersi vicino a me e al sessantenne col naso rosso. I raggi del sole, ormai piuttosto caldi, battevano sul finestrino e sul mio viso, ed io cominciavo infine a scivolare nell'incoscienza, cullata dal ritmo del convoglio e dal silenzio del vagone. Proprio allora mi accorsi che il treno si stava avvicinando alla città in cui viveva un ragazzo con cui anni prima avevo avuto una relazione. Lo definisco un ragazzo, benché avesse e abbia la mia età, perché quando ci frequentavamo eravamo entrambi tali. Mi capitava a volte di ripensare a quel ragazzo; ma forse, in realtà, guardavo con rimpianto a un'età serena e lontana. Appoggiata al finestrino, e già nel dormiveglia, riconobbi le colline e i boschetti che tante volte avevo visto con lui o che mi avevano annunciato l'arrivo nella sua città: riconobbi i suoi luoghi, ed ebbi voglia di lui.
Il signore grassoccio si alzò per prendere qualcosa dalla valigia; in quel momento, mi riscossi dal sonno e decisi che sarei scesa alla stazione successiva, quella del mio ex. D'altronde, solo il giorno successivo avrei dovuto incontrare i clienti; se anche avessi saltato la fiera, nessuno l'avrebbe mai saputo e a nessuno sarebbe mai importato. Oppure, potevo benissimo inventarmi qualcosa: ci sarà un motivo se il mio capo mi ripete in continuazione che sono una donna intelligente. Anche se quando lo dice mi guarda il seno.
Alla stazione di C. presi un taxi e mi feci portare a casa sua, senza sapere se lui ci abitasse ancora e con chi. Suonai il campanello: venne ad aprire lui, e portava pantaloncini blu scuri e una maglietta rossa. Aveva i piedi scalzi. Quando mi vide, non disse nulla; si limitò a passare una mano sui miei capelli, tenero e lascivo. Poi mi cinse sul fianco e mi tirò dentro, chiudendo la porta alle mie spalle.
Non ricordo cosa gli dissi, ma ricordo che avevo una gran voglia di parlare, di rivelargli cose, probabilmente anche di giustificare quell'improvvisa apparizione; lui invece non parlò, non sorrise, non atteggiò il proprio viso a nessuna espressione particolare: mi osservò, dapprima, poi cominciò a accarezzarmi. Ebbi quasi l'impressione che la sua bocca fosse cucita, e che non potesse staccare un labbro dall'altro. Non ricordavo tuttavia la gentilezza e la sensualità del suo tocco, e smisi di parlare. Poi volevo di nuovo dire qualcosa, ma non sapevo più cosa e a lui sembrava non interessare nulla al mondo. I suoi occhi e le sue mani vivevano solo in funzione del mio corpo: con una calma quasi irritante e una lentezza che non mi pareva possibile, iniziò a togliermi di dosso il serissimo tailleur che indossavo. Io a quel punto volevo saltarne fuori, calpestarlo, volevo essere nuda alla svelta; ma lui frenava i miei movimenti con gesti morbidi ma fermissimi. Ero una bambola di porcellana nelle sue mani, e lui non aveva intenzione di guastarmi il vestitino.
La situazione era assurda e in qualche modo destabilizzante; le sue mani, tuttavia, le sue mani grandi avevano raggiunto la mia pelle, e non avevo intenzione di scacciarle. Mi pareva quasi che le sue vaste mani si fossero ulteriormente allargate, mentre il viso di lui aveva perso ogni espressione, e non c'erano tracce della sua voce né della sua volontà. Ma tutto questo, mentre mi portava verso il letto che ben conoscevo, mi stava bene. La sua bocca, in fin dei conti, si aprì, ma lo fece solo per mordermi e leccarmi; volli prendere l'iniziativa, ma le sue braccia sembravano d'acciaio, e con gesti dolci mi inchiodarono a ricevere. Mi tolse le mutandine, poi parve dimenticarsi del mio sesso e si concentrò sul collo, sui capelli, sui seni; infine, quando scese, le sue labbra erano così dolci e leggere che pensai di raggiungere l'estasi. Le sue mani enormi correvano perdute sul mio corpo, mentre il suo viso copriva la mia vagina; ma alla fine quelle vagabonde trovavano sempre un luogo da carezzare, da stringere, da sfiorare, mentre più sotto il mio sesso fremeva ai suoi baci. Mi divincolai per un momento, e riuscii a spogliarlo e quasi a gettarmi su di lui, inghiottendolo in un boccone; lui tenne per qualche istante una mano sulla mia nuca, con aria di compiaciuta sufficienza, poi di nuovo mi prese e mi rovesciò con una forza che non gli conoscevo. Afferrandomi per le caviglie, salì fin sulla mia schiena, e simulò - una, due, tre volte; e ancora - di entrare in me da dietro, ma ogni volta il suo sesso non faceva che solleticare il mio, provocandomi un piacere che non poteva bastarmi. Io muggii di frustrazione e di voglia, e tentai con il braccio di acciuffarlo e di costringerlo a compiere il proprio dovere: vedendo e comprendendo le mie intenzioni, lui si diresse finalmente alla porta che gli offrivo. Quando avvertii che si introduceva in me, non potei fare a meno di emettere un gemito strozzato.
Fu allora che il signore distinto dal naso rosso smise di trafficare con la propria valigia e si girò verso di me. Il mio sogno, perché di un sogno si era trattato, era dunque durato solo pochi secondi, e quel mugolio ne era stata l'unica manifestazione evidente. Il tizio si sedette e mi guardò per un momento, poi si distrasse di nuovo. Io, però, non potevo più dormire per la vergogna (del tutto fuori luogo, giacché era evidente che nessuno aveva riconosciuto l'origine di quel verso) e per l'eccitazione. Così, dopo qualche minuto, mi recai alla toilette; ma la mia mente non riuscì a ricreare neanche una delle immagini del sogno, e i miei occhi non videro altro che le pareti bianche e scrostate del gabinetto. Uscii senza aver concluso nulla e tornai al mio posto. L'industriale dormiva.
Pochi minuti dopo, il treno traversava a tutta velocità la stazione a cui avevo sognato di scendere: le nuove linee veloci non servivano più la città di C. Appiccicai ancora il volto al finestrino e osservai le case e le strade che svanivano rapidamente; mentre tutto spariva, le mie labbra appoggiate al vetro si aprirono leggermente, per il desiderio e il rimpianto.

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