21 febbraio 2011

Orgoglio paterno

Mi sono ricordato oggi di quella volta, nell'autunno del 2005, che la mia ragazza di allora mi chiamò per dirmi che aveva qualche giorno di ritardo: dodici. Dodici giorni sono tanti. In dodici giorni, in altri tempi, in altri luoghi, un messaggero del Khan dei Mongoli avrebbe percorso a cavallo immani distanze nell'impero del proprio padrone, sfrecciando ventre a terra in mezzo a pianure silenziose e pacifiche e incrociando sul proprio cammino solo rare vergini sedute su carichi d'oro. In dodici giorni un giovane d'oggi, meschino come sono meschini i tempi che viviamo, finisce per impaurirsi un mondo e pensa cose che non andrebbero pensate, si pente di cose di cui non ci si dovrebbe pentire.
I dodici giorni divennero diciassette, poi venne fuori che non c'era nulla da contare e che si era trattato solo di un falso allarme. In seguito finì tutto, poche settimane dopo, e io provai un gran sollievo e un enorme senso di libertà.
Adesso mi ritrovo a pensare che se quei diciassette giorni fossero diventati trenta, sessanta e così via, oggi avrei per casa, ammettendo per comodità che io possegga una casa, un attrezzo di quasi cinque anni; e dovrei inventarmi un modo per dargli da mangiare e qualche storia per farlo crescere sveglio e dormire felice. Ipoteticamente, giacché non esiste, lo avrei chiamato Coso; per una femmina, invece, mi sarebbe piaciuto più Caterina. Se Coso fosse qui intorno gli troverei un pallone e un prato; in casa gli direi di smettere di infastidire il gatto, supponendo che ci sia anche un gatto (ipotizziamolo nero). Coso avrebbe la testa grossa - è normale, è l'età - e i capelli castani, diversi dai miei, con qualche riflesso rosso, come ne avevo io alla sua età.
Al quasi cinquenne comincerei a insegnare qualche parola in dialetto, perché non mi convincono i bambini che parlano solo italiano. Molte altre cose, presumo, le deciderebbe la madre o le vedremmo insieme.
Se Coso esistesse, sarei un po' preoccupato per lui e molto contento, di avere un Coso e della sua vita all'inizio; di quella vita che ancora, in potenza, gli permetterebbe quasi tutto.
E poi, boh, molta altra roba la saprei se lo conoscessi, Coso. Ciao Coso, ciao F.: è andata così.

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01 febbraio 2011

Manie di persecuzione

Ilir è un bravo ragazzo biondo, ha un campo lasciatogli dai suoi e lui lo lavora, lo lavora tutto il giorno e non cresce niente: sarà che c'è troppo sole, sarà che la terra è grigia e dura come pietra, fatto sta che non viene su nulla. I genitori di Ilir non sono morti, sono solo andati via un giorno e lui l'hanno lasciato sul campo; voleva andarsene anche Ilir, ma gli hanno detto di restare lì, ché prima o poi qualcosa sarebbe cresciuto.
A Ilir capita spesso di andare a ficcarsi in qualche guaio: un giorno in città l'hanno fermato certi tipi con la pistola e gli hanno chiesto il portafoglio. Ilir ha risposto che a lui quei soldi servivano per comprare le sementi, e allora i rapinatori si sono offesi. Tu pensi solo a te stesso, gli hanno fatto notare, Non ci sono soltanto i tuoi campi, e via così; non è che l'abbiano proprio convinto, però alla fine Ilir, un po' per la dialettica un po' per le pistole, ha consegnato loro il portafoglio. Per fortuna aveva qualche soldino nella camicia: gli sono bastati giusto per i semi di cappero, che tanto non germogliano.
Quella sera al bar Ilir ha confidato agli amici di sentirsi a volte particolarmente sfortunato. Quelli gli hanno detto, Eh, ognuno ha i suoi problemi, a me per esempio si sta staccando la marmitta della Ferrari ma non la faccio mica tanto lunga, comunque se vuoi ti consiglio un terapeuta. Ilir pensava che fosse uno psicologo, invece è uno che una volta a settimana gli si siede sulla schiena e gli fa anche abbastanza male, però ogni tanto gli dà qualche consiglio sulla vita e le donne: Ilir, che è un ragazzo biondo e fiducioso, li mette in pratica tutti e fallisce sempre.
Un giorno i suoi amici decidono di emigrare e allora emigra anche Ilir. Va all'ambasciata con gli altri per farsi fare il visto, gli altri li prendono e Ilir no. C'è un problema col passaporto, gli dicono, La foto non va bene. Ilir chiede come mai, e gli impiegati rispondono che è brutta: Guarda che ciuffo che c'hai, tagliati i capelli, gli dicono, e parlano alla foto. Ilir dice che può rifarla, nel caso, ma quelli ribattono che no, che un ciuffo del genere è sbagliato come concetto, e lo espellono dal paese senza neanche averlo fatto entrare.
Perciò Ilir resta da solo in mezzo ai suoi campi brulli su cui crescono solo capperi. La sera va a dormire su un materasso pieno di foglie di granturco e ripensa agli avvenimenti della sua vita, sforzandosi però di vederli sotto una luce positiva, perché il suo terapeuta gli ha intimato di non cadere in una facile depressione e di non scaricare sugli altri le proprie colpe; Ilir obbedisce e dorme senza deprimersi.
La mattina poi si sveglia e nonostante tutto ha voglia di cantare, perché è una mattina in più, perché c'è il sole, perché i suoi capperi crescono.

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