24 dicembre 2010

Racconto di Natale

Perché la gente muore? Questa è senz'altro un'ottima domanda, forse la domanda più interessante di tutte, benché, certo, sia arduo trovarle una risposta soddisfacente; d'altra parte, è innegabile che si tratti appunto di una questione molto vasta e ricca di sfaccettature e di implicazioni filosofiche, naturalistiche e morali, per cui l'estrema carenza di soluzioni valide appare del tutto giustificata.
Molto più semplice sarebbe rispondere ad una domanda simile, soltanto meglio precisata nei suoi confini storici e contingenti. Come, ad esempio: perché la gente muore ad un pranzo di Natale? Per una di quelle buffe coincidenze che a volte capitano e che in questo caso facilitano molto lo sviluppo del nostro racconto, questo era appunto quanto si stava chiedendo Patrizio Bordoni, seduto al suo posto in fondo a destra, vicino al calorifero, in uno dei ristoranti più quotati di Cesena, affollato in quel momento di gente morente.
Per un'altra di quelle casualità che succedono a volte, anche se questa pare accadere molto più di frequente, sarà perché la si giudica negativamente e rimane dunque più impressa, Patrizio Bordoni aveva avuto pochi minuti prima di arrivare in quel ristorante l'occasione di cambiare completamente la propria giornata: ovviamente, il lettore attento lo ha già capito, dato che si è descritto il suo posto al ristorante, aveva preferito declinare quell'invito del fato. Neanche un'ora prima, in effetti, Bordoni viaggiava in autobus, diretto al ristorante, e portava in braccio un gran mazzo di fiori, senza sapere bene a chi regalarli; una ragazza con il naso gonfio per il pianto e il raffreddore gli aveva infine offerto un modo di liberarsi di quei fiori e anche un'occasione insperata per scambiare due parole più facili e gradevoli di quello che lui si sarebbe aspettato da quel naso gonfio e da quegli starnuti rumorosi. Tuttavia, la loro conoscenza si era poi fermata lì, a quella fermata a cui Bordoni era sceso.
Ma non si capisce bene questo racconto se non si tiene presente che i parenti di Patrizio Bordoni erano tutti al Sud, al sole, partiti in largo anticipo su treni ancora passabilmente vuoti; lui, invece, l'avevano tamponato due giorni prima di Natale. Perciò era rimasto a Cesena, con l'auto inutilizzabile e un persistente male al collo che gli aveva sconsigliato di affrontare un lungo viaggio in treno, ammesso che si trovassero ancora posti liberi. Bordoni, poveraccio, si era così accodato a un collega che conosceva appena, uno che veniva da una qualche città lombarda che lui non aveva neanche ancora individuato; costui si sarebbe recato con la consorte, che non era forestiera ma che non voleva cucinare, a un gran pranzo, uno di quelli in cui si viene serviti e si mangia come Dio comanda. Quel pranzo, è evidente, è lo stesso pranzo a cui alla fine è andato anche Bordoni, quello a cui l'hanno messo a sedere in quel postaccio vicino al calorifero; a questo pranzo, bisogna dirlo, i camerieri hanno in effetti livree e modi inappuntabili, e i piatti, presentati meravigliosamente, emanano un tale odore che viene l'acquolina anche solo a descriverli. Peccato solo che la gente che li assaggia poi si accasci sul tavolo, o cada rumorosamente dalla sedia, creando in questo secondo caso anche gravi difficoltà agli elegantissimi camerieri, costretti a scavalcarne i cadaveri senza far cadere il brodo.
Bordoni, seduto alla sua sediolina bruciata dal termosifone, sudando per il caldo e per la gravità di quel che gli capita attorno, non sa come tirarsi fuori da quella situazione. Vicino a lui c'è il collega lombardo, che gli dà di gomito, facendogli osservare gli stucchi della sala e i generosi spacchi delle signore; dalla cucina si avvicinano i grandi piatti fumanti, odorosi di buono, e man mano che arrivano al tavolo si avvicinano anche i tonfi dei cadaveri. Come se non bastasse, ad un certo punto squilla anche il telefonino, lasciato colpevolmente acceso; così Bordoni è costretto a chiedere scusa al collega e alla sua annoiatissima moglie e a piazzarsi dietro una colonna nell'ampia sala bianca, da cui osserva i piatti giungere in sala e i cadaveri ammucchiarsi ai piedi del tavolo. La nonna da Ostuni lo saluta tanto, anche se continua a confonderlo con qualche altro nipote; Patrizio, da parte sua, augura buon Natale a tutti, ma è costretto a troncare presto la conversazione perché sta per arrivare il primo, e non sembra educato farsi trovare distante e in piedi al momento dell'inizio del pranzo. Perciò Bordoni torna a sedere, abbastanza rassegnato a mangiare quegli ottimi cappelletti che stanno sterminando i suoi commensali; d'altra parte, gli hanno insegnato che quello che gli vien messo davanti, nel piatto, si mangia, e gli parrebbe gravissima maleducazione alzarsi da tavola prima della coppia che lo ha invitato lì. Per andare dove, poi, ché tutti i suoi parenti sono in Puglia.
In una casa gialla appena fuori Cesena, proprio mentre Bordoni appoggia con grande dignità il tovagliolo sulle ginocchia, c'è una ragazza che pilucca trasognata i suoi cappelletti, lei che di solito ne fa fuori due o tre piatti in un amen; quella ragazza è la ragazza dell'autobus, e anche dopo aver posato quegli stupendi fiori in un vaso all'ingresso non ha smesso un attimo di pensare al bel ragazzo moro che glieli ha regalati (lei piangeva perché si sentiva brutta e goffa, ed era Natale). Se qualcuno chiedesse a Patrizio Bordoni, peraltro, il motivo di quel dono, lui risponderebbe onestamente che voleva regalarli alla consorte stanca e infastidita del suo collega lombardo, ma che poi gli era balenato un pensiero, quello cioè che a quel pranzo sarebbero stati presenti altri colleghi e altre mogli, e che anche un gesto di cortesia sarebbe stato letto come una preferenza; e poi, oltretutto, in un ristorante un mazzo di fiori non si sa mai dove metterlo. Se avessero fatto la stessa domanda alla ragazza, lei avrebbe dato per scontato che quel mazzo di fiori serviva da un lato a consolarla del raffreddore che la gonfiava e l’abbruttiva, dall’altro era un chiaro omaggio galante; e nel dire questo non avrebbe affatto notato la contraddizione.
Dunque la ragazza, nel totale disinteresse dei parenti (molto meno romantici di lei), mangiucchiava e pregava sottovoce di rivedere quel ragazzo, con le preghiere sussurrate che quasi diventavano un soffio sui cappelletti bollenti; ma se solo avesse saputo della sorte di Bordoni, le sue preghiere sarebbero state molto diverse e i suoi occhi assai meno estatici e rapiti.
Patrizio Bordoni, in quel momento, annusava con terrore e voluttà il vapore che saliva dal piatto del vicino in grandi nuvole odorose; per poi prorompere in un grido e in una bestemmia non del tutto strozzata – che figura, a Natale! – quando il lombardo gli cadde sulle cosce, inzuppando il suo tovagliolo e le sue cosce di brodo bollente. Lo gettò a terra con violenza, d’istinto, senza accorgersi di spingerlo proprio tra i piedi del cameriere accorrente, il quale a sua volta cadde con il viso nella zuppiera, e ne morì. Bordoni si guardò intorno sconvolto, deciso a chiedere scusa a qualcuno ma trovandosi intorno solo cadaveri. Anche la moglie del suo collega, a quanto pare, era deceduta in silenzio, e ora giaceva sfinita e composta di fronte al piatto del marito. Di camerieri, in giro per la sala, non se ne vedevano più; d’altronde i piatti erano stati tutti portati al tavolo.
Perciò, non dovendo chiedere scusa a nessuno e non avendo neanche nulla da mangiare, Bordoni si alzò e se andò. Sulla soglia del ristorante si fermò un attimo, e il vento freddo lo colpì a tradimento sulle gambe bagnate; allora decise di camminare per scaldarsi, e si diresse verso la periferia. Qui, ad un certo punto, sentì qualcuno urlare; alzò la testa verso la finestra da dove provenivano le grida, infastidito, e non capì che chiamavano lui. Stanco, affamato, infreddolito, tornò verso casa. La ragazza, d’altra parte, non conosceva il suo nome.

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13 dicembre 2010

La scuola letteraria marchigiana

Mi piacerebbe un giorno fondare quella che poi, nei libri di scuola su cui si formeranno le prossime generazioni, verrà ricordata come la scuola letteraria marchigiana; allo stesso modo, mi piacerebbe possedere un ombrello multicolore e aprirlo per ripararmi dalla pioggia che fredda e insistente picchietta le Asturie. A ben vedere, non c'è alcun rapporto logico a legare questi due desideri; d'altra parte, il rifiuto della millenaria dittatura della logica sulla letteratura e sulla sintassi sarà uno dei punti fondanti della mia scuola, e uno dei motivi per cui la critica impiegherà del tempo ad accettare le mie rivoluzioni.
Perché mai, ad esempio, Ruben? No. E così via; allora sì che saremo liberi, quando potremo disseminare le nostre pagine di personaggi mai descritti in precedenza, sortiti all'improvviso da una piega del racconto e prontamente riassorbiti, nel breve volgere di un paio di vicende sconnesse e maldescritte.
Io, inclito ideologo della scuola letteraria marchigiana, guadagnerò pertanto per il mio coraggio visionario un posto d'onore nelle antologie, mentre i somari del futuro storpieranno il mio nome in vari modi e per questo, sempre in futuro, riceveranno voti giustamente scadenti e arrossiranno alla cattedra davanti al sarcasmo dei professori; poi, tornati al posto, proveranno a maledirmi, ma in quanto somari continueranno a ignorarmi e le loro maledizioni non disturberanno il mio sonno.
Io, per allora, sarò morto e sepolto e giacerò placido e glorioso sotto un letto di non-ti-scordar-di-me, metafora anche troppo banale della necessità di non-scordarsi-di-me, la cui infelice ideazione scarico totalmente sui posteri; giovani e meno giovani si daranno il cambio sulla mia tomba, piangendo la mia dipartita, e gli amanti delle arti vi lasceranno le loro corone.
Questo, ipoteticamente, può farmi piacere; ma pensiamo a un affare per volta. Dicevo infatti: vorrei che un giorno nascesse attorno alla mia figura - al momento insignificante - una scuola di letteratura; di questa scuola, per meriti che al momento non posso vantare ma che evidentemente in futuro saranno chiari, io dovrei essere il fulcro e il perno. È evidente perciò che devo iniziare a studiare, a produrre, a mostrarmi degno di un tale compito; ma soprattutto mi serve un ombrello multicolore e un qualche pretesto per recarmi nelle Asturie a fissare il cielo che, da quelle parti, non tarda mai a riempirsi di nuvole.

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09 dicembre 2010

L'ultimo nomade

L'ultimo nomade arriva un giorno, forse cavalcando, al margine nordorientale d'Italia. Come lui sono giunti a bussare a quella porta, nei secoli, centinaia di migliaia di altri nomadi; ma non ce ne saranno altri. È l'aggettivo a garantirlo: lui è l'ultimo.
L'ultimo nomade, come tutti i precedenti, sogna di arrivare a Roma, città di cui ha sentito parlare da chissà chi e chissà dove, nei piatti deserti della sua infanzia. Verrà fuori poi, col tempo, che nella lingua dei nomadi Roma equivale a dire: oro, sogno, brama, donne, desiderio, zucchero e bisogno. Quando gli chiederanno come possano tutte queste cose esser suggerite e contenute dall'idea di una città, Timo ribatterà, stupito: "Città?". Timo (così, appunto, si chiama il nomade) sa cos'è Roma, ma non sa ancora cosa sia una città.
Ma come è arrivato fin qui? In Ungheria l'hanno forse guardato con simpatia, riconoscendo in lui un archetipo antico; in Slovenia invece hanno applicato il Trattato di Schengen, che stabilisce precisamente che chi va bene agli ungheresi deve andar bene anche agli sloveni; questa, almeno, è l'ipotesi degli investigatori. Al confine italiano, tuttavia, lo fermano, gli sequestrano il cavallo e gli notificano che in Italia il nomadismo, la razzia e il sogno sfrenato non hanno diritto di cittadinanza. Timo, l'ultimo nomade, non sa che fare; poi trova lavoro in un forno a Grado. Ogni tanto la proprietaria lo sorprende mentre digrigna i denti e brandisce un pane francese, e allora capisce che sta entrando a Roma ed evita di infastidirlo.
La gente a Grado gli chiede da dove viene. Lui fa un gesto con la mano, verso l'altra parte del golfo. "Vieni da Trieste?", gli domandano. Ma Timo viene da più a oriente. Gli nominano altri posti, appena dietro Trieste o parecchio più a Est. Ma lui dice che no, non sono neanche quelli i suoi luoghi. Allora i curiosi tacciono, perché non sanno più che chiedere. Tace anche Timo, perché non sa spiegarsi. Si guardano.
Una notte, prima di andare al lavoro, Timo è sulla spiaggia e passeggia con una ragazza bionda. L'ultimo nomade si fa dire dalla ragazza i nomi delle stelle, poi fa per aprire bocca, ma tace. Allora lei gli domanda cosa stesse per dire; lui risponde che voleva solo dirle che lei è bella. La ragazza sorride, ma Timo mente. Quello che Timo voleva dire è che quelle stelle, il Grosso Orso e l'Orso Più Piccolo, lui le vorrebbe sopra la sua testa una notte all'Aventino, quando finalmente sarà arrivato a Roma e dormirà all'aperto su un prato, davanti ad una chiesa. L'ultimo nomade non sa nulla dell'Aventino, ma gli piace il nome e crede che là sopra ci siano più stelle; e sa purtroppo che finché non sarà a Roma anche l'amore che sente per questa ragazza bionda sarà uguale ai nostri amori imperfetti di sedentari, che sono sempre almeno in parte una richiesta d'aiuto e di sostegno, una cura, un'abitudine, una fuga.
L'ultimo nomade, che ha visto da bimbo le notti limpide dei deserti ghiacciati, sogna invece una notte stellata sull'Aventino e l'amore senza nuvole.

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