29 settembre 2010

Racconti che piacciono ai bambini-Volume I

Alfio è una merda con le gambe. Sono gambe piccole e nere, ma ad Alfio quelle gambette vanno benissimo. Dove abita lui, a Merdopoli, tutte le merde hanno le gambe, portano il capello, e quando si incontrano per strada lo tolgono cerimoniosamente, lanciandosi a vicenda dei pezzetti di merda. Per fortuna non c'è gente troppo formale, a Merdopoli, anzi, non c'è proprio gente; ci sono solo merde come Alfio.

***

A Merdopoli tutte le merde portano i pantaloni, e ci mancherebbe altro. Per tenerli su, usano tutti delle cinture grigiette o beige, che stringono e stringono finché un po' di merda non deborda; quand'è così, è segno che va bene: allora le merde possono dare un bacio alla propria consorte e uscire di casa per recarsi al lavoro (la moglie resta lì, si infila dei guanti di plastica e si mette a pulire e riordinare. Per quanto si possa pulire una casa abitata da merde). Alfio, invece, che è un tipo anticonformista, porta le bretelle. Solo che le merde, di norma, hanno le spalle cadenti come Pavel Nedved, e Alfio non faceva eccezione a questa regola. Perciò si è messo a fare palestra, ha sporcato un sacco di bilanceri e ora ha delle belle spalle larghe, di merda soda, che reggono benissimo le sue bretelle rosse. Alfio è fierissimo delle sue spalle, delle sue bretelle, e anche delle sue camicie abbastanza immacolate.

***

Un giorno Alfio va in gita ad Urbino, con la fidanzata e alcune altre merde. Lui vorrebbe andare alla Galleria Nazionale, ma alla biglietteria gli fanno storie, con la solita scusa che è una merda e potrebbe andare in giro a tocchicciare. Allora Alfio fa giustamente notare che è pieno di gente che entra e magari ha le mani sporche; ma in una Pinacoteca si guarda con gli occhi, mica con le mani, e poi c'è il personale in sala appunto per evitare questo genere di problemi. Quelli della biglietteria un po' annuiscono, un po' mugugnano, un po' fanno le facce; Alfio, scocciato, se ne va, entra in un bar e ordina un caffè. Il barista lo guarda, mugugna, fa le facce; poi però i soldi li prende, anche se sono sporchi di merda. Alfio se ne va, sbuffando un poco. Il mondo visto da una merda è ingiusto e pieno di ipocrisia.

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22 settembre 2010

Un viaggio in treno

Fin dall'inizio del viaggio il ragazzino aveva notato la bottiglietta d'acqua mezza piena (o mezza vuota) sul ripiano alla sua sinistra; né d'altra parte poteva essere altrimenti, visto che non c'era niente altro da notare, in quel treno semivuoto e triste, lanciato in mezzo al grigio di una domenica autunnale, su cui stavano pochi passeggeri addormentati e silenziosi.
Ovviamente adesso aveva sete. Aveva sete probabilmente perché vedeva la bottiglia, non per mancanza di liquidi; e poi perché non c'era nient'altro da fare e nessuno con cui parlare. Peccato che i suoi genitori gli avessero sempre detto di fare attenzione a toccare le cose abbandonate da qualche estraneo; e se la cosa valeva per il semplice "toccare", tanto più, gli sembrava, avrebbe dovuto evitare di bere l'acqua altrui. Chissà cosa poteva esserci, in quell'acqua; chissà quali potenti droghe, quali malattie, che sapore cattivo poteva nascondere. Allora il ragazzino che faceva per la prima volta quel viaggio da solo (tornava da una breve vacanza, l'ultima prima di un nuovo anno di scuola, passata in casa di certi parenti) decise solennemente che non avrebbe bevuto e che avrebbe dormito o guardato il paesaggio.
Ma a quell'età la mattina non si ha sonno, e poi la zia gli aveva anche fatto un caffellatte, che a casa non poteva bere; e fuori dal finestrino, nel panorama che il ragazzino osservò attentamente con la faccia schiacciata contro il vetro, era tutto grigio, noioso, liquido, e faceva venire voglia di bere. Perciò il ragazzino bevve, sentendosi vagamente costretto dall'enorme arsura che lo attanagliava e dalla mancanza di alternativa. Bevve un sorso, e vide il suo corpo ancora bambino trasformarsi: per prima cosa, la pelle divenne dura e color bronzo, come quella di certi insetti particolarmente coriacei (quelli che fanno meno schifo, perché non sono viscidi); le mani mutarono in sorta di potentissime chele, mentre lo sterno si gonfiò e si proiettò in avanti, lucido. Il ragazzino si rese conto che quel sorso lo aveva trasformato in un enorme scarabeo seduto in treno.
Poi ne bevve un secondo, perché aveva ancora sete. La trasformazione iniziata continuò, ma con una certa coerenza: le forme del corpo rimasero le stesse, soltanto si riempirono di luce. Lo scheletro duro, lucido e quasi metallico del ragazzo-scarabeo si fece cristallino e luminoso; questi allora volò attraverso il finestrino sulle città nebbiose traversate da quel treno, ne seguì per lungi tratti la corsa, poi se ne distaccò buttandosi in picchiata nelle piazze medievali, disturbando i piccioni e lasciando stupefatti i vecchietti riuniti per le chiacchiere domenicali. Infine il mostro rientrò in treno dal medesimo finestrino, si mise a pensare seriamente al difficile destino che l'attendeva (lui scarabeo in una famiglia e in una scuola fatte interamente di persone normali), poi s'addormentò; qualche minuto più tardi, una leggera pressione del controllore sulla sua spalla luminosa di gigantesco scarabeo antropomorfo bastò a svegliarlo e a scacciare gli effetti dell'acqua bevuta. Il ragazzino, un po' intontito dal sonno, tornò umano e mostrò il proprio biglietto al ferroviere.
Di nuovo lucido, decise che avrebbe rintracciato quel ferroviere e lo avrebbe ringraziato mille volte per averlo salvato dal triste destino di insetto luminoso; poi arrivò a casa, disfece la valigia e la sera guardò il Milan. Il giorno stesso e per sempre si dimenticò dell'intera vicenda e del controllore da ringraziare.

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21 settembre 2010

Per vostra informazione

Ho scritto un racconto per un e-book (o libro elettrico che dir si voglia) sulla sfortuna. Lo trovate cliccando qui. Il mio contributo si trova nel secondo dei due; vi do tuttavia il permesso di leggere anche quanto scritto da altri. Domattina o al più giovedì invece pubblico una cosina qui. Baci a tutti.

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13 settembre 2010

Brani da un poco noto romanzo russo

La carrozza di Pavel Andreič Malafeev viaggiava come il vento in mezzo al più tipico paesaggio russo, che sfilava sui lati della vetturetta ma che, in un certo senso, la circondava da ogni lato; perché a me pare, benché dica questo ed esponga questa mia tesi con la più grande umiltà e in una certa maniera chinandomi con la fronte fino a terra, tanto da vedere soltanto la punta delle mie lunghe scarpe, e nient'altro di interessante, che non sia corretto sostenere come si fa di solito che il paesaggio stia "ai due lati della carrozza", mentre agli altri due ci sarebbe la strada polverosa che, come detto, si allunga come una biscia in mezzo alla campagna. Non mi pare corretto scrivere così perché prima di tutto i lati del paesaggio sono assai più lunghi e anche larghi di quelli della strada, se si esamina la questione con attenzione, e poi perché la strada polverosa, la biscia sdraiata pigramente al sole, è anch'essa, a mio umilissimo modo di intendere la questione, parte integrante e insostituibile del paesaggio russo. Essa è stata costruita dall'uomo, sia pure; ma l'uomo non ha forse costruito anche le chiese di pietra che biancheggiano dai bordi dei villaggi, e piantato il grano e la segale che ondeggiano al vento come le chiome bionde di una collegiale non usa alla treccia, e levigato le assi ben fatte delle isbe poste nei villaggi ricchi, e trascurato invece quelle marce delle abitazioni in rovina, e piantato gli stessi boschetti bianchi e diritti che si ergono vicino alle rocce e ai dirupi, dove altre coltivazioni sarebbero difficili o impensabili? Forse tutto questo non è, in un certo senso, paesaggio? Allora, dunque, sempre che accettiate questo ragionamento, vedrete che sarete d'accordo con la mia tesi e tornerete a ritroso nel testo, seguendo con il dito le nere righe d'inchiostro, fino a ricollegarvi al punto in cui si parlava dei lati della carrozza e del paesaggio; e penserete, ad essere onesti, "Beh, senz'altro questo ragionamento non è privo di acutezza e senso, ma, Dio mio!, quante righe tolte ai pensieri e alle azioni dei protagonisti! E chissà dov'è ora la carrozza!". Se invece, come uomini e lettori all'antica, riterrete degno di voi restare aggrappati all'antica tesi per cui il paesaggio scorre ai due lati, e davanti e dietro c'è solo la strada, allora con ancora maggior forza rigetterete l'utilità stessa di questa parentesi e la fondatezza della mia tesi; in entrambi i casi, dunque, mi pare senz'altro doveroso chiedervi scusa e tornare piuttosto alla vicenda raccontata.
L'agile carrozza di Malafeev, in effetti, in tutto questo tempo è corsa a perdifiato attraverso la campagna e il paesaggio, qualunque sia il numero dei lati di quest'ultimo, lasciando indietro boschetti di betulle e pioppi e rari abeti e alti larici, e traversando su ponti di legno o di pietra fiumi argentei e larghi come mari; ed è infine giunta attraverso un viale fiancheggiato da querce alla casa bianca del possidente Gabulov, annunciata dal villaggio steso sotto di sé e dai magazzini dove i contadini conservano attrezzi e sementi.
Arrivato a destinazione, Pavel Andreič fa appena in tempo a scendere in bello stile dalla vettura che già un contadino dal viso largo gli fa strada per la casa, un altro lo ha già annunciato, mentre altri contadini prendono in consegna la carrozza impolverata e i cavalli e il cocchiere, e danno alle bestie il fieno e l'avena, come si conviene loro, e ad Alëša presentano invece, all'osteria che sorge ai limiti del villaggio, la più appropriata ospitalità russa.
Spolverandosi molto dignitosamente le falde dell'abito, del resto impeccabile, Pavel Andreič entrò dunque negli appartamenti del possidente Gabulov, Konstantin Konstantinovič quanto al nome e patronimico, che gli si fece incontro e lo baciò tre volte, secondo l'antica tradizione. Konstantin Konstantinovič era un uomo all'antica, per certi versi, e del resto a lui stesso stava molto a cuore che ogni suo comportamento, lo stile della sua abitazione e dei suoi terreni, e perfino la postura e la compostezza a cui atteggiava il viso in società, tutto questo gli desse davanti agli osservatori la meritata fama di uomo severo, costruito secondo il vecchio e conosciuto modello del possidente russo, con pochi e decisi colpi d'ascia, senza sprechi né fronzoli di tipo occidentale. D'altra parte è giusto, in un certo senso, anticipare al lettore che forse il carpentiere o maestro d'ascia che lo aveva scolpito con tanta severità, che avesse viaggiato in Germania o in Olanda, o forse per un afflato poetico di cui non sono a volte privi i cuori dei carpentieri e degli altri artigiani russi, aveva lavorato anche di scalpellino o in punta di coltello, o indugiato prima di colpire, e poi ritoccato più volte i tratti del viso; cosicché il severo Gabulov rivelava a volte una curiosità affettata e uno spirito giovanile, se non in definitiva, con rispetto parlando, veramente superficiale e futile, che non si confaceva molto all'insieme. Gabulov soffriva per questo suo lato veramente infantile, o puerile, o simile forse a quello spensierato dei giovani che a San Pietroburgo vivono soltanto per i balli e per certe porcherie, Dio guardi, che in questa opera rispettabile il lettore non troverà neanche nominate; è vero anche che la sua sofferenza interiore, a ben vedere, era in se stessa una parte dissonante dalla sua complessiva severità, e più adatta alle sviolinate di un giovane tedesco malato di tisi o d'amore, o d’entrambi.
La conversazione fra i due si avviò subito e non ebbe bisogno per continuare degli usuali complimenti che sono in un certo modo necessari nei discorsi che si svolgono in questi casi, tra persone nobilissime e davvero rispettabili che non possono non tener conto del grado e della ricchezza dell'altro; d'altra parte il severo Gabulov non amava che gli si rivolgesse troppa adulazione, o meglio l'amava, in un certo senso, apprezzandone il suono, ma giudicava con la sua usuale severità che essa non fosse appropriata all'animo chiaro e semplice di un possidente all'antica; mentre il nostro Pavel Andreič, viaggiatore poderoso, uomo comunque pulitissimo e gran frequentatore di case di possidenti, e non solo, conosceva questi uomini e queste circostanze come le proprie tasche, e in pochi minuti sapeva chiudere la faccenda dei convenevoli con una proprietà di linguaggio, un modo forbito e pieno di pronunciare le parole, una certa secchezza affatto priva di piaggeria, tanto che i suoi interlocutori finivano invariabilmente con il pensare "Beh! Questo farabutto, perché immancabilmente si tratterà di un farabutto, sa come comportarsi in società, e non parla più stupidamente di tanti altri". Questi ultimi, va da sé, erano i misantropi e i diffidenti, che anche tra gli ospiti russi ormai si trovano in quantità; quelli che invece erano meglio disposti verso il genere umano, non solo non lo chiamavano farabutto, ma invariabilmente ne erano conquistati e per lui andavano come in solluchero.
Tra Gabulov, Konstantin Konstantinovič, e il nostro Pavel Andreič, pensieri del genere non erano in ogni caso intercorsi; anzi, la conversazione si sviluppò assai amabilmente e scivolò abbastanza presto, com'è normale tra uomini celibi e ancora piuttosto piacenti (la rasatura di entrambi era impeccabile, e perfettamente rosee e tondeggianti le loro guance; sia Gabulov che Malafeev utilizzavano poi certi saponi francesi o persiani che senza dubbio idratavano e massaggiavano la pelle, sebbene Gabulov pensasse che, in qualche modo, quei saponi non si addicessero troppo alla sua grande e compunta severità d'animo; cosicché di tanto in tanto smetteva di servirsene per qualche settimana). Tra i due tuttavia, benché fossero entrambi piacenti, Gabulov era in svantaggio in quanto, in un certo senso, non aveva esperienza, perché nella sua vita era stato solo in qualche vicina cittaduzza e, nonostante comperasse regolarmente libri e giornali e a volte cercasse perfino di leggerne brani interi prima di dormire e cercasse quindi di farsi un'idea delle cose sia grandi che piccole e dei più importanti avvenimenti, non aveva comunque l'esperienza del mondo che poteva vantare Malafeev, la cui carrozza aveva sobbalzato su tanti selciati di tante città russe, e forse aveva percorso anche strade sconosciute al di fuori dell'Impero.
"Voi, Pavel Andreič", esordì quindi il severo possidente, "avete viaggiato e conoscete il mondo e le grandi occasioni che questo contiene per un uomo di talento come voi certamente siete, e tuttavia vi siete mantenuto celibe; ecco, vi posso quindi chiedere se, in un certo senso, ciò è avvenuto per caso, o se invece i vostri affari vi assorbono e preferite, prima di impegnarvi, rinsaldare la vostra rendita e offrire poi a vostra moglie e ai vostri figli una certa sicurezza, o se c'è ancora una qualche altra ragione?".
Tutto questo fu detto con grande dignità, e forse soltanto il flusso delle parole era leggermente troppo veloce e affettato.
"Non si tratta di nessuna di queste ragioni", rispose Pavel Andreič, mentre stringeva gli occhi ed allargava le braccia ai lati della comoda poltrona di raso che gli era stata offerta; e pareva un grosso gatto persiano, certamente il preferito delle donne di casa, mollemente abbandonato sul sofà. "Il fatto, Konstantin Konstantinovič, è che anni di viaggi e numerose conoscenze mi hanno reso forse esigente o forse, in qualche modo, disincantato; quel che chiedo alle donne, o piuttosto quel che cerco in loro, è un qualcosa che, per certi versi, difficilmente si attaglia alla costruzione di una famiglia solida, come se, ad esempio, io scegliessi per la mia casa un materiale nient'affatto adatto, o troppo morbido, o poco flessibile. Questo dunque, lo vedete anche voi, mi costringerebbe invariabilmente a rinunciare dopo qualche tempo al mio progetto".
Il severo Gabulov non comprendeva, ma sentiva puzza di liberalismo e di occidentalismo e di romanticherie tedesche fuori posto. "Voi intendete, quindi, che la vostra scelta ricade su donne spiritualmente per nulla pronte, o che le vostre anime non si fondono in armonia e i vostri occhi non si cercano attraverso le ricche sale illuminate o qualche altro genere di scempiaggini? Perché, in tutta onestà", Gabulov credeva di essersi spinto troppo oltre e voleva in qualche modo rimediare, "in tutta onestà io non vedo in voi tratti tanto futili e irresoluti e tali da lasciare spazio a convinzioni del genere".
Il gatto persiano sorrise appena: "No, no, tranquillizzatevi, Konstantin Konstantinovič! Io non mi riferivo a queste che voi, con parola molto ben scelta, avete definito scempiaggini. Pensate, tuttavia, alla scelta di una donna; pensate che essa desidera, in un certo senso, delle ricompense e dei privilegi, e le più dannose tra loro vorranno anche crescere secondo i propri pregiudizi i figli che nasceranno da tale unione; tutte, comunque, tutte invece si sentiranno in dovere di considerarsi vostre anime gemelle e compagne necessarie, e dunque di annoiarvi con tutta una serie di pretese e, ciò che è peggio, con consigli di ogni genere su qualsiasi aspetto della vostra vita, quasi che l'atto di sposare un uomo equivalga a quello che è per un fattore l'affidamento di un nuovo terreno da gestire e organizzare secondo il proprio gusto e la propria esperienza. Ma noi non siamo campi di segale e bianchi boschi di betulle, e se il costo di quello che si chiama amore è, in qualche modo, la perdita della gestione di sé e l'affidamento di tutto ad una estranea, amabile quanto volete, bianca e rosa quanto volete, seducente quanto volete, allora io rifiuto questo cosiddetto amore".
Il possidente Gabulov era combattuto: da un lato apprezzava la solidità di queste decisioni che rigettavano l'influenza altrui, dall'altro gli pareva però che l'amore fosse anch'esso una vecchia e rispettabile tradizione (si amano gli orsi svegliatisi dal letargo, si amano i pesci che risalgono i grandi fiumi, si amano le tortorelle che costruiscono assieme il proprio nido, si amano gli uomini che suonano e cantano nelle notti di luna; non è forse così da sempre?) e che non si potesse rinunciare ad esso. Non riuscì dunque a trovare e ad esprimere un'opinione propria, e si limitò a chiedere a Malafeev, del resto con tono molto rispettabile, "E dunque, che fare?".
"Che fare, mi dite?". Di nuovo stringeva gli occhi e allargava le zampe sui braccioli. "Io dico che le donne che bisognerebbe amare e scegliere come proprie compagne di vita, e certamente come madri dei propri figli, sono quelle che alla compagnia maschile preferiscono quella femminile, e già molte volte nei collegi si sono sentite storie a questo riguardo, e che in effetti non hanno né gusto né interesse a mischiarsi troppo nella vita e nelle cose di un uomo".
"Voi", sillabò piano Gabulov, "intendete, in un certo senso e per così dire, quelle che hanno ripreso e seguito le orme e il vizio di Saffo?". Detto questo, si guardò intorno con circospezione e senza che ce ne fosse assolutamente motivo.
Pavel Andreič Malafeev, questo gigantesco gatto persiano in impeccabile vestito grigio, o piuttosto color crema, rise. ""Vizio", lo definite voi? Ma che vizio è mai, se non reca fastidio e non dà noia a nessuno? Io lo chiamo piuttosto inclinazione o indole; un po' come una ragazzina che non vuole a nessun costo mangiare le mele russe, che pure fanno così bene alla crescita di un organismo giovane, e desidera invece le arance della Crimea o anche i cocomeri: è un fatto, sotto ogni punto di vista, di gusti. Con la differenza che buone mele rosse le offre ogni contadina, mentre l'acquisto di frutta esotica è cosa difficile e costosa".
"Voi quindi vi prefissate di conquistare una di queste, certamente, donne, sia pure...?", e non disse nient'altro.
"Ma io non intendo conquistare nessuno. E perché mai, poi, "conquistare"? Ora siete voi, anima mia, a cadere nelle sciocchezze dei romanzi occidentali. L'idea di conquistare qualcuno, come se si trattasse di una ben munita fortezza, non mi sfiora; tanto meno ho intenzione di convertire, in qualche modo, quella che alcuni chiamerebbero una donna viziata o traviata. Questa, oltretutto, è una fantasia tipicamente donnesca... Gli uomini non si cambiano e non si convertono, se non superficialmente e per poco tempo. Io voglio soltanto una compagna che abbia coscienza dei propri spazi e dei propri limiti, e ugualmente conosca i miei; e non credo ci sia migliore garanzia, quanto a questo, del fatto che essa provi per me o per qualunque altro maschio un sostanziale disinteresse. D'altra parte, infallibilmente, se non è interessata a me non si vede perché dovrebbe diventare, anche con confini ben delimitati e libertà molto chiare, la mia compagna e la madre dei miei figli, e questo è davvero molto evidente e non ha bisogno di ulteriori spiegazioni; per questo, per rispondere infine alla sua prima domanda, per questo, carissimo Konstantin Konstantinovič, sono ancora celibe e percorro da solo la santa e sterminata Russia".
"Ma voi...?", cominciò allora a blaterare Gabulov, e non si capiva assolutamente cosa volesse dire; tuttavia, non ci fu verso che concludesse la frase.
Dopo qualche secondo di attesa, Malafeev parlò lo stesso, e disse soltanto: "D'altra parte, la nostra amata Russia è tanto vasta e sconfinata, e piena di animi così singolari, che non è neanche giusto disperare. A Dio piacendo, a tutto si troverà una soluzione soddisfacente".
Gabulov quasi rabbrividì, mentre il gatto persiano sorrideva e pareva sul punto di mettersi a fare le fusa, tanto che il severo Gabulov, per un istante e del tutto inconsciamente, ebbe l'impulso di scacciarlo dalla poltrona per evitare che graffiasse e scucisse la fodera.
I due rimasero in silenzio fino a che non fu servita la cena, l'uno sfogliando senza alcun reale interesse i ponderosi volumi della biblioteca, e specialmente alcuni che riportavano stampe vividamente realizzate e ispirate a soggetti mitologici dell'antichità, incarnati con verosimiglianza in un certo senso anche eccessiva da ragazze di cui non si solo si poteva ammirare la bianchezza dei colli e l'incarnato roseo ma anche, senza scendere troppo nel particolare, anche dettagli che forse in un volume scientifico potevano essere, in qualche modo, evitati; l'altro invece dondolando le gambette dalla poltrona imbottita in maniera un po' nervosa e, allo stesso modo nervoso, mordendosi di tanto in tanto le labbra.
Infine giunse in tavola uno storione, e i due scapoli si alzarono, si diedero il braccio e si diressero alla sala da pranzo.

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