27 agosto 2010

Il ritorno dei Celti

A dire il vero, non siamo mai scomparsi. In tempi remotissimi, è scomparsa la nostra potenza e la nostra gloria, poi è svanita la memoria di noi e si sono perdute le nostre lingue: eravamo, forse, un popolo, ora siamo soltanto quelli rimasti sui monti lontani e sulle colline meno generose, e da lassù abbiamo osservato le genti trionfanti delle città e delle pianure.
Non siamo un popolo, eppure ci chiamiamo con un solo nome, perché tra noi ci assomigliamo tutti, come per secoli e per millenni si sono assomigliate le nostre vite: paiamo antichi come la terra, e in certe giornate di nebbia, d'autunno, o a volte nel sole accecante dell'estate, sembra che quella terra ci inghiotta, con le nostre case, i nostri borghi di mattoni, le nostre chiese di pietra. Non ci appartiene la retorica stanca e volgare della sconfitta: se fummo sconfitti, accadde talmente tanto tempo fa che neppure ce ne ricordiamo. Non abbiamo ricchezze da rimpiangere né città da riconquistare. La nostra, semmai, è la pratica della sopravvivenza: aggrappati al bordo estremo dalla Storia, per secoli l'abbiamo vista scorrere in basso, lontano da noi, e quando ci ha raggiunto è stato solo per donare il fuoco ai nostri villaggi e le malattie e la pestilenza a noi e alle nostre bestie. Anche così, siamo rimasti sulle nostre terre scarne: siamo stati gli ultimi pagani e i primi monaci, poi siamo stati guardiani di confini altrui e soldati in eserciti estranei. Per antica inquietudine e per eterna curiosità (la curiosità insopprimibile di chi vede il mondo dall'alto) siamo scesi a valle, decisi a cercare difficili fortune o vogliosi soltanto di lasciare indietro la miseria. Chi tornava in alto, però, di solito non aveva molto da raccontare; chi moriva in basso parlava ancora meno. Quando la guerra s'è trasferita sui nostri monti, siamo stati partigiani, per fedeltà alla terra più che per odio a qualsiasi bandiera. Poi siamo scomparsi di nuovo, e sembrava che la modernità dovesse cancellarci tutti, come non era riuscito ai roghi e alla malattie.
Oggi siamo i pochi superstiti di un mondo finito; ma lo eravamo anche ieri, un secolo e un millennio fa. Per lunga frequentazione, siamo la terra dei nostri monti e delle nostre colline, perciò non spariremo finché esisterà la terra. Quando la Storia grande e facile delle pianure ricche si farà drammatica e si riempirà di sangue e di paura - succederà, è già successo - altri saliranno ai nostri monti e saranno Celti anch'essi. Fino ad allora i monti aspetteranno, e noi con loro.

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