26 aprile 2010

Dissacratemi sto cazzo (note sul 25 aprile)

Ieri salivo per una montagna famosa per i lutti e le glorie della guerra di Liberazione e delle rappresaglie, quando sorpassando un gruppetto di studenti ne ho udito uno che faceva una battuta sui partigiani, che però non ho sentito; gli altri del gruppo hanno espresso qualche perplessità, al che il tizio ha ribattuto che "bisognava dissacrare". Non avendo capito la battuta, non ho detto nulla al gruppetto e ho proseguito; solo più tardi mi sono reso conto che il problema non era la battuta sui partigiani, il problema era quel "bisogna dissacrare".
Invece no, bisogna semmai consacrare. Quello che unisce una comunità o un qualsiasi gruppo umano è una serie di riti e di occasioni sacre; è insomma il credere tutti in qualcosa, è l'avere rispetto per dei simboli, è il celebrare la memoria dei propri martiri. Il 25 aprile è per l'appunto un'occasione sacra, che fonda un'appartenenza; è aperta a tutti, e tutti vi possono credere. Ma se vi sentite troppo intelligenti o troppo unici per limitarvi a credere, allora ne siete fuori: non c'è spazio per distinguo o appartenenze marginali. Si crede o non si crede, e se si crede ci si comporta in maniera consequenziale. Già troppo e troppo a lungo si sono tollerati dissacrazioni e distinguo.
Il 25 aprile si deve stare come in chiesa. È una festa, senz'altro, una festa che ci hanno regalato: dobbiamo mantenerla integra e pulita, nel suo senso, nella sua storia, anche nella forma. È la festa della liberazione, non quella di una vaga libertà né tantomeno quella della licenza: per questo non dovrebbero essere permesse, e credo sia tempo di chiarirlo, cadute di stile e fughe né sostanziali né formali. Non è la festa dei bonghi, non è la festa della battuta arguta, non è la festa dell'attualità politica e non la si può dunque rivolgere contro nessuno (al limite, si deve semplicemente e chiaramente riaffermare che chi non ne condivide i valori e i riti ne è fuori); è un dono che ci è stato fatto, e richiede la celebrazione e la gioia ma anche il raccoglimento e il rispetto dei morti e dei vivi, delle loro storie, dei loro simboli. Non è in alcun modo la festa dei sandali o dei pantaloni a righe da straccioni, non è la festa della pizzica e non è la festa della faziosità settarie o dell'astio mal indirizzato.
Quello che è, quel che significa, lo si trova scritto sui libri di storia. C'è poi ancora tanta gente che può spiegarne il senso, nel caso. È un momento religioso, un momento sacro, che fonda una comunità. Libera scelta quella di aderirvi; ma se si vuole celebrarlo, che lo si celebri rispettandolo.

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