22 gennaio 2010

Gli occhi del toro

Molte cose apparentemente inspiegabili si rivelano invece perfettamente razionali alla luce di piccoli dettagli che di solito si tende ad ignorare. Perché l'enorme e bellissimo toro, in cui la natura ha voluto concentrare ogni sua forza, non abbia paura dei quintali di muscoli frementi dei suoi simili quando li sfida alla lotta, né di incocciare un albero vecchio e nodoso, le cui radici sprofondano per secoli e secoli nella terra scura, e tema invece l'uomo minuscolo che tiene in mano una mazza al punto di non ribellarsi neanche quando vede la propria morte, è veramente, se lo si considera senza notarne i dettagli, un mistero irresolubile; ma la nuda realtà è che gli occhi del toro sono bugiardi e si comportano come suoi nemici, gli raccontano il falso ed esso, che non ha altre verità a cui affidarsi, crede ciecamente a quelle menzogne. Agli occhi del toro l'uomo minuscolo è un gigante maggiore perfino degli antichi figli delle dee del terreno, di cui il toro dunque sarebbe fratello, perché anch'esso è a suo modo un gigante e un figlio notevole della Terra; e il vile mazzuolo, che in fretta e in silenzio compie il suo compito mortale, diventa la Flamberga di un paladino, o il martello di un dio dimenticato ma terribile. Il toro, che sa soltanto quel che vede, capisce allora che tutti i muscoli del suo collo, su cui il sudore è come brina, e quegli altri vibranti sotto la sua schiena lucida, non servono a vincere quel titano; e prima ancora che la mazza lo colpisca tra gli occhi, dunque, il toro si inginocchia, pieno di rassegnata dignità.
Ad una donna erano capitati in sorte quegli stessi occhi. Lei che aveva capelli scuri e lucidi come la schiena di un toro, e il corpo che pareva animato da una simile forza, soltanto convertita in grazia e in bellezza (si dice che tra gli uomini la bellezza spezzi la forza, e fenda in due anche un cuore di metallo: e forse questo significa che l'uomo spende tutte le proprie forze e la propria vita nel costruire o conquistare ciò che è bello, e dunque quest'ultimo è un fine che batte e sopravvive a ogni mezzo, ogni astuzia, ogni potenza), lei che scaldava con uno sguardo occhi e cuori ricoperti di brina gelata, ai suoi occhi tuttavia non esistevano che giganti, e il suo cuore finì per convincersi della propria meschinità. Quando si è meschini non si sceglie, e lei andò avanti accontentandosi di miserabili giganti: ognuno di questi incredulo di trionfare su tanta forza, ognuno di questi rozzo, piccolo e spregevole anche, o particolarmente, nel momento del proprio inatteso trionfo.
La città è sempre più dimentica dalla campagna che l'ha nutrita e da cui scaturisce, e la cittadina in cui viveva quella donna non faceva eccezione a questa ignobile regola; sdraiata nella pianura grassa che era e restava campagna, essa tuttavia, priva di orizzonte, poteva continuare ad ignorare il proprio ambiente e la propria origine. Perciò nessuno vide negli occhi di lei che cosa facesse inginocchiare la sua bellezza, perché si rassegnasse a perdere senza lottare; la spiegazione fu cercata nella mente di lei, che non aveva invece nulla di disprezzabile, e nessuno venne dai campi grassi a guardare i suoi occhi. Arrivò invece un altro gigante, perfino più minuscolo e meschino degli altri, e lei di nuovo si dichiarò sconfitta; ma questo misero gigante era spaventato a morte dal possesso davvero immotivato di una tale bellezza, cosicché si vedeva costretto a reclamare di continuo il proprio dominio e a annullare quella forza con la violenza. La bellezza di lei, la forza di lei, lui la coprì di lividi, come marchi su un bovino al pascolo; ma lei non conosceva rabbia né ribellione, e non disse nulla sulla fonte di quei marchi neanche quando vennero a casa i carabinieri, chiamati da qualche vicino infastidito, e le chiesero del gigante, e di come muoveva le sue membra smisurate. Non ci si lamenta di ciò che appare inevitabile. Il carabiniere che la interrogò seduto su una sedia della cucina, naso greco da dio sotto sopracciglia folte da satiro, vide e registrò la forza che le aveva donato la natura, in quel corpo vasto e ben fatto che si poteva solo ammirare; ma sotto i capelli scuri, gli occhi di lei, e di conseguenza tutta l'espressione della sua faccia, gli parvero stupidi e falsi più delle sue parole, e in fondo non giudicò la donna quella gran bellezza di cui si diceva. Il carabiniere fu il primo ad avvicinarsi al vero.
Poi, un giorno, le mani del gigante, forse stringendo un qualche attrezzo, la colpirono sopra gli occhi, in un punto di poco superiore a quello in cui si abbatte il mazzuolo dell'allevatore sul toro in ginocchio; e lei si ritrovò sugli occhi un velo rosso, e ne fu sorpresa. Se il mazzuolo del contadino manca il bersaglio, e il sangue denso cola sugli occhi bugiardi del toro, questo si scuote, come illuminato da una verità indicibile, e con sé scuote via i due o quattro uomini che lo tengono avvinto con delle corde, poi cerca e affronta quelli che gli parevano giganti e sono meno di mulini, e se ne va, i muscoli palpitanti di sangue e di sudore, a morire sui suoi pascoli sotto l'assalto di mille nani vigliacchi e preoccupati. Allo stesso modo, il sangue lavò via dagli occhi di lei quella goccia d'acqua o di vetro che falsificava il vero e produceva giganti; e lei si scoprì forte come la natura, e come la natura non ebbe motivi per essere pietosa. Capitava a volte che lui fuggisse in mezzo alla notte dopo averla marchiata dei suoi lividi, perché non la voleva vicina, dunque nessuno si stupì e nessuno si preoccupò della sorte di lui; ma questa volta pareva scomparso nel nulla, e i carabinieri tornarono da lei e chiesero del nano. Seduto sulla stessa sedia della cucina, il medesimo carabiniere le fece numerose domande che non portarono a nulla, poi frugò nei cassetti e trovò un numero dispari di coltelli; l'altra volta, gli parve allora di ricordare, l'altra volta, fuggendo da quelli falsi della donna piena di lividi, i suoi occhi si erano posati su un ceppo pieno di lame disposte in due file, che ora non si mostrava più sul piano accanto al lavandino. D'altra parte, dovette ammettere a se stesso il carabiniere, quella era soltanto una vaga impressione, mentre la verità è che non costituisce reato né indizio di nulla il possedere un numero dispari di coltelli, né l'aver gettato via o portato in cantina un ceppo forse posseduto in precedenza. L'uomo richiuse perciò il cassetto, ancora pensieroso, e incrociò lo sguardo di lei che lo seguiva: stavolta la trovò bella, e ne ebbe paura.

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18 gennaio 2010

Maturità di un popolo

Il sole subtropicale illumina un popolo al gran completo e, forse stupito, lo osserva rumoreggiare sotto le finestre del dittatore (c'è anche Andoni, il fornaio basco, che aveva detto che non sarebbe venuto). Fin dalle primissime ore della mattina, la vasta spianata delimitata dai busti marmorei dei Grandi della Nazione è piena degli slogan e dei canti dei cittadini. Stimolata dalle migliori menti del paese e dai loro articoli lucidi e coraggiosi, la folla chiede finalmente libere erezioni. La nazione è matura e intende rinunciare alla tutela di un solo uomo: decidere del proprio destino è ciò che compete all'uomo libero, ed è la libera erezione la forma principe di manifestazione della propria volontà.
Finalmente al balcone compare il dittatore-padre, vestito di una bianca uniforme su cui ha gettato un giaccone blu con alamari di corno, perché il sole non ha ancora riscaldato la mattina: il dittatore ha ascoltato le parole del proprio popolo, e lo ama e lo ringrazia con le lacrime agli occhi per essersi presentato alla sua umile dimora. Ma non può concedere ciò che gli viene chiesto: le erezioni sono un peso e una responsabilità troppo grandi per quel popolo così amato, le erezioni ingenerano aspettative, le erezioni indicano una linea che poi è facile tradire, fissano un termine cui non sempre si giunge. Io sono la vostra erezione, dice il dittatore, lasciate a me questo gravoso compito, a me che l'ho sempre portato a termine con la vostra più totale soddisfazione. Non è forse così?, domanda la voce tonante dell'uomo in bianco e blu, e qualcuno nella piazza si confonde, ed è pronto a cambiare avviso e tornare alla precedente obbedienza; ma la guida della piazza è salda, e i capi mantengono la barra dritta. La folla non si placa, l'assembramento non si scioglie, le erezioni restano sulla bocca di tutti: libere erezioni, si grida, libere erezioni, lasciate che siamo noi gli artefici del nostro destino. Il dittatore si volta, ha un rapido consulto, di gesti e di non detti, col suo più fido collaboratore: l'esercito non si muoverà, gli dice il collaboratore, anche gli uomini in verde desiderano le erezioni. E poi, sospira il dittatore, questi ribelli qui sotto sono i miei figli, se si ritengono cresciuti diamo pure loro quel che vogliono: che abbiano le loro erezioni, se pensano di saperle gestire.
Due mesi dopo, in un tripudio di sole, di danze e di popolo, gli osservatori internazionali assistono alle prime erezioni libere e sistematiche nella travagliata storia del paese: è un trionfo, e tutto pare andare per il meglio. Ma i saggi e i disincantati sanno che le erezioni sono la parte facile, e il difficile è tutto ciò che viene dopo. Tuttavia, anche i più cinici sono tentati di unirsi alla folla e partecipare alle danze.

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05 gennaio 2010

I piccoli sepolcri

A me non devono mai portarmi nei cimiteri, perché sono un tipo emotivo e troppo fantasioso. E poi entro troppo in empatia con la gente morta. Coi morti giovani, mi dicono, entrano tutti in simpatia, perché è stato loro negato tanto, o tutto, e non è giusto; coi morti bambini ancora di più, e mi pare ovvio. Ma a me dispiace anche per le donne sposate, perché penso ai bambini rimasti orfani, al marito vedovo che non sa neanche come cuocersi la zuppa (stiamo parlando di mariti di inizio secolo, inconsolabili ma formalmente perfetti nella loro bella grafia floreale). E mi addoloro anche per i vecchi, poverini: voglio dire, una vita di lavoro e uno li ripaga ammazzandoli, con la futile spiegazione che le loro cellule sono troppo vecchie per continuare a campare? Alla faccia della gratitudine, mi vien da dire.
Per questo motivo, ed altri che mi parevano chiari quando ho iniziato a scrivere questo post, ma al momento di scriverli invece si nascondono, quelle puttane, scolorano e scompaiono e mi tocca restare sul vago come un qualsiasi opinionista di quelli che vanno per la maggiore; per questo motivo, dicevo, i cimiteri sono una trovata assurda e andrebbero aboliti. I morti, pur morti e tendenzialmente poco portati al movimento o anche all'esposizione concitata dei propri punti di vista, comunque si accalcano, fanno folla, e quando sono tanti creano in noi persone sensibili un sovraccarico emozionale che è difficile da gestire; tutta quella vita, quella morte, quella sofferenza e quei caratteri curiosi su lapidi affisse da mani a loro volta morte da tempo, tutto questo è pesante e causa pensieri che in tempi di crisi e di ricerca di lavoro uno si risparmierebbe volentieri.
I vostri morti teneteveli a casa, mi viene da dire allora, per quando vengono a visitarvi parenti e amici, come peraltro si è lungamente fatto nelle più rispettabili tradizioni classiche. Mi pare anche la soluzione più giusta e che maggiormente tiene in conto la sacra necessità di salvaguardare il legame di sangue e di spirito tra i defunti e i loro discendenti. "Come sta tuo zio, ci va ancora a vedere la Ternana?", domanda ad esempio un tale in visita, sorseggiando un tè nero, un gradevole Assam; "Zio è lì, sopra il camino. No, a vedere le Fere non ci va più, da quando è in un'urna zincata non lo fanno entrare neanche come accompagnatore" (questo post ha anche lo scopo civico di sollecitare i vertici della Ternana Calcio 1925 ad una diversa politica di accoglienza allo stadio per i diversamente vivi). I morti sono una cosa strettamente personale, o in ogni modo familiare, e devono restare in famiglia. A metterli via, sembra quasi che uno si vergogni dei propri morti.
Poi in realtà io da morto mi troverei benissimo in un cimiterino da qualche parte nelle mie valli verdi, interrato, non piazzato in un loculo come un aggeggio da ferramenta da tirar fuori al momento della richiesta del cliente, e me ne starei lì a guardare le colline da sotto e le bocche di lupo che mi crescono tra le costole ormai irrimediabilmente scarne. Alla gente che viene al cimitero a visitare dei parenti o ci capita perché è lungo una stradina panoramica, lo prometto, non darei noia, e non richiederei a nessuno un contegno empatico nei miei confronti. Se volete, anzi, potete anche cogliere le bocche di lupo e regalarle alle vostre donne, ché tanto le mie costole, ancorché ormai irrimediabilmente scarne, sono fertili e qualcos'altro ne verrà sempre fuori.

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