27 marzo 2009

I tormenti di un giovane scrittore

Gli hanno detto: scrivi di ciò che sai, non inventarti nulla.
Io so le province della Lombardia, e se mi dite così non aggiungo Legnano.
Gli fanno: scrivi di sesso, ché il sesso tira sempre.
Allora c'è Bergamo, c'è Bergamo rude, ha un corpo forte e bozzuto, i suoi muscoli sono le sue montagne, i fiumi stretti tra le vallate sono vene blu che guizzano sulle braccia potenti; ma Bergamo rivela una delicatezza che i nostri pregiudizi non gli attribuirebbero, si china gentile e bacia il corpo di Mantova, un corpo vasto, odoroso, umido e saporito, e lo bacia giù giù fino a raggiungere il boschetto di pioppi che Mantova - pochi lo sanno - nasconde tra le cosce bianche. Ci si perderebbe, in quel boschetto, nel boschetto che ha tutti gli odori e i sapori.
Gli consigliano: mettici qualche critica ai politici, strumentalizza lo scontro per vendere meglio, polarizza la società tra chi ti legge perché condivide le tue idee e chi compra i tuoi scritti per sapere cosa odiare.
A me non piace Crispi; trovo che la Destra Storica avesse meglio interpretato i bisogni della Nazione. Adesso posso tornare a parlare delle province lombarde? L'argomento mi appassiona.
Gli suggeriscono: infiltrati in un ambiente, elogia una cricca, diventa organico ad un qualche potere, per marginale che sia, e ricevine vantaggi.
Pronto, è l'Arcicaccia di Ferrara? Volevo dirvi che secondo me state facendo un bel lavoro, e ho sedici racconti sui cinghiali degli argini da donare al vostro giornalino. In cambio potrei avere un biglietto per la Giacomense, o sono troppo sfacciato?

Ciononostante, benché lui segua scrupolosamente tutte le istruzioni che gli danno (certamente per il suo bene), continuano a rifiutargli i racconti, e le segretarie lo guardano male, le volte che si presenta alla casa editrice a consegnare personalmente i suoi manoscritti. Lo odiano anche i correttori di bozze, così, probabilmente per contatto con le segretarie, anche se fa pochissimi errori. Forse lo odiano perché la crisi è colpa sua, almeno nella visione ristretta di un correttore di bozze.

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19 marzo 2009

Recensioni militanti & promesse dell'arte alternativa

È un esordio fulminante, quello di Piero Van Dijk, giovane artista che porta una ventata d'aria fresca nello stantio mondo dell'arte italiana, sia quella mainstream e à la page del gran mondo sia quella che si reputa alternativa ma che da troppo tempo non partorisce nulla di davvero dicotomico rispetto alla dittatura della maggioranza e del suo gusto.
È una sfida stimolante, quella di Piero Van Dijk, che dice "Sì, si può", ma non con l'aria buonista o obamiana di chi sfrutta una illusoria libertà lasciata cadere come un contentino dall'establishment (octroyée, si sarebbe detto ai tempi di Julien Sorel, lui sì un giovane ribelle che non aveva bisogno di concessioni), bensì con la consapevolezza clashiana che se pensarlo è possibile, farlo è rivoluzionario; e che questo vecchio mondo ha bisogno di guerriglieri e di artisti, meglio se delle due cose insieme.
È un lampo abbacinante, quello di Piero Van Dijk, che squarcia la nube bassa e claustrofobica dell'arte e dello spettacolo italici, uccisi non dalla morte della riduzione dei finanziamenti pubblici, ma dalle guardie bigotte incarnate da chi non ha saputo far fruttare e indirizzare le risorse esistenti.
C'è uno yemenita col turbante, alla mostra di Piero Van Dijk, che si domanda come diavolo sia finito lì, lui che voleva vedere la fontana di Trevi (con tutto che la mostra non è neanche a Roma).
Lasciamo allora che a parlare sia chi ha davvero qualcosa da dire, e premiamolo con la partecipazione, perché l'arte è prima di tutto democrazia popolare: l'imperdibile debutto di Piero Van Dijk, Stronzi lanciati sugli specchi dell'ingresso, è alla Galleria delle Esposizioni di Terni fino al 29 aprile (se venite dall'autostrada, alla terza pressa girate a destra).

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10 marzo 2009

La complessa architettura di un campo di provincia

Se si potesse scavare sotto gli spogliatoi dello stadio Ezio Scida di Crotone, si troverebbe uno stanzino angusto, immerso nella terra nera e umida, grande poco più del corpo di un uomo. Questa stanza, che non appare nel progetto originale e di cui nessuno conosce l'esistenza e l'ubicazione, è posta diversi metri al di sotto del livello del prato verde e non è raggiungibile in nessun modo, perché non ci sono scale o altri passaggi che la colleghino agli spogliatoi. La stanza è sepolta nella terra che la circonda da tutti i lati. Paradossalmente, se qualcuno fosse al corrente della sua esistenza, dovrebbe necessariamente negarne la possibilità.
Eppure lo stanzino c'è, e dentro lo stanzino c'è un uomo. L'uomo è chiuso nella stanzucola poco più vasta del suo corpo; ma per lui quello spazio potrebbe essere enorme, perché non è la ristrettezza del luogo a impedirgli di muoversi. L'uomo non parla, non sente rumori, non percepisce odori e non è neanche in grado di aprire la bocca e tirar fuori la lingua come una sentinella solitaria; l'uomo sa di avere un corpo non perché l'abbia mai visto o toccato, lo sa e basta. Allo stesso modo, l'uomo sa di essere nella stanza sotto lo stadio Ezio Scida di Crotone, non perché ce l'abbia messo qualcuno o perché ricordi il momento in cui per qualche circostanza vi è stato rinchiuso, ma solo ed esclusivamente perché lo sa. L'uomo il cui corpo non può muoversi riconosce con esattezza il momento in cui, al di sopra di lui e incuranti della sua presenza, picchiettano i tacchetti sulle piastrelle degli spogliatoi, come un temporale estivo dalla larghe gocce su un terreno durissimo per la lunga sete. Il Crotone fa il suo ingresso in campo tra gli applausi, ed è come se l'uomo sotterrato e muto li sentisse tutti scoppiare in petto; costui proverebbe qualcosa di simile ad una vivissima angoscia non priva di sorpresa, se solo fosse in grado di provare una qualsiasi sensazione.
Se qualcuno lo vedesse, penserebbe che quell'uomo è morto, o quantomeno che si tratta di un vegetale senza consapevolezza di sé. L'uomo, da parte sua, si domanda spesso quale sia la propria condizione: se stia dormendo o sognando, se esista sul serio lo stanzino in cui sa di essere rinchiuso, o se invece è davvero morto e tutto quello che immagina è finzione ostinata del suo cuore che non vuol saperne di smettere di battere. Di certo, non è vero che l'uomo non ha consapevolezza, giacché invece pensa in continuazione, costruisce castelli e porta il mare (che non è distante dallo stadio) nel buio e nel chiuso dello stanzino; e a volte crede perfino di chiudere gli occhi, perché ha immaginato troppo forte il sole e ne è rimasto abbagliato. Quando si convince di essere deceduto, l'uomo si chiede se davvero la morte è uno sgabuzzino stretto sotto allo stadio Ezio Scida, o se piuttosto ci sia molto altro, che ora purtroppo gli sfugge. O non c'è niente, e di nuovo la sua mente lo inganna e cerca di tranquillizzarlo.
Le volte in cui, invece, si ritiene vivo, l'uomo comprende che quello stanzino buio e senza uscite non è di fatto il problema, perché la sua unica prigione è il suo corpo che lo schernisce, quel corpo morto - lui sì - che rifiuta di muoversi. Quando capisce questo l'uomo vorrebbe piangere, e più ancora vorrebbe morire. Morire gli sembra anzi l'unico modo di giocare quel corpo che lo odia, quella maledizione che sogna di cancellare. Solo allora realizza che morire vorrebbe dire anche lasciare la stanza nascosta sotto l'Ezio Scida, dimenticare per sempre il crepitio dei tacchetti e il saltellare compatto dei tifosi che rimbombano nel suo petto, anche se non può sentirne il rumore. L'uomo non conosce altre emozioni; per questa ragione, perfino l'ipotesi di rinunciare a tanto poco - se solo fosse possibile - gli provocherebbe un brivido.

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05 marzo 2009

Io m'arcordo

In tutta la mia vita, solo una volta sono stato a Viterbo: era l'inizio del 2005, il tempo era pessimo e io ho visto gli alieni e Centofanti. Ma partiamo dall'inizio.
All'epoca vivevo a Roma e avevo tutte le domeniche libere, perché i miei parenti erano molto lontani e mi risultava difficile, o impossibile, presentarmi da loro alle una e venti reclamando la mia porzione di vincesgrassi. Per questa ragione restavo a Roma e facevo il meno possibile per tutta la giornata: perché se non potevo avere i miei vincesgrassi, mi sembrava giusto non sprecare le calorie che non ricevevo. E mi pare che fin qui il discorso fili.
Una domenica però giocava l'Ancona a Viterbo, nel quadro del girone B della serie C2. Il termine "girone", devo dire, è quantomai azzeccato, perché se ti tocca andare a vedere uno spettacolo simile è segno che in vita hai fatto qualcosa di male. Ad ogni modo, anche se neanche lì mi avrebbero dato un piatto di pasta fresca, decisi di recarmi a Viterbo a vedere la partita. Sul treno, credo di aver passato il tempo a leggere o a guardare l'osceno panorama del Lazio settentrionale; di sicuro ho ignorato i diavoletti che in queste circostanze si accalcano a punzecchiare i tifosi delle squadre di C2 (si tratta di diavoletti metaforici, sia ben chiaro. Ché non si dica che sono pazzo). Giunto a Viterbo, ho mangiato un pezzo di pizza all'unto di altre pizze e mi sono diretto con calma verso il campo sportivo.
Ero arrivato all'altezza di un parco pubblico, piuttosto ampio e gradevole, quando mi hanno fermato gli alieni. Erano piccoli, vestiti con tute aderenti gialle da cui uscivano teste e mani color verde acqua, non avevano capelli e svolazzavano a un metro da terra. Per passare inosservati, ognuno di essi portava stretta al minuscolo collo una sciarpa della Viterbese. Io, vedendoli avvicinarsi, sperai che non volessero attaccar briga per la mia sciarpa biancorossa, poiché picchiarsi per una partita di calcio è un atto decisamente stupido e ingiustificabile; e farlo con degli alieni toglie anche il gusto del campanilismo. Ma non era di calcio che volevano parlare. Il primo alieno mi arrivò infatti, svolazzando, a trenta centimetri dal viso e mi chiese bruscamente: "Hai presente S*?". Ce l'avevo presente sì, e che la fama del suo culo fosse arrivata agli estremi confini della Via Lattea era una notizia che non mi stupiva più di tanto.
L'alieno continuò informandomi che non dovevo toccarla, quella ragazza, e che non dovevo nemmeno pensare di provarci. Io protestai a lungo e veementemente, ricavandone solo minacce. Forse ad un certo punto alzammo anche la voce; dico questo in quanto la folla che si dirigeva allo stadio fissava infastidita il nostro capannello. Alla fine, rattristato ma persuaso della necessità di non fare un torto agli alieni, chiesi perché fossero venuti fin sul mio pianeta, fino a Viterbo, con l'unico apparente intento di censurare il mio interesse per l'altro sesso.
"Perché sul nostro pianeta il tuo sperma provoca sommovimenti politici e siamo in campagna elettorale", mi rispose con franchezza uno degli omuncoli volanti. "Se non scopi fino all'estate ti mandiamo un ciauscolo di Alpha Centauri". Promisi, anche se del ciauscolo mi fregava ben poco. Ma la paura era tanta, e io in fondo sono un vigliacco con i più verdi. Gli alieni allora sparirono, sempre minacciandomi con le dita e facendo gestacci inequivocabili.
Rimasi un po' lì, nei pressi dello stadio, e incrociai Felice Centofanti (all'epoca dirigente dell'Ancona Calcio); fui felice per quest'incontro inaspettato e lo salutai con parole affettuose. "f(x) = x6/5 + 4x4/5 - 7x/5 - 2 = 1/5 (x+5)(x+1)(x-2)", rispose lui, giacché Centofanti si esprime solo attraverso funzioni di polinomi complessi. Poi entrai allo stadio; per la cronaca, la partita andò male.
Tornato a Roma, ho incontrato la ragazza che non potevo toccare e non l'ho toccata, né quel giorno né mai. Le elezioni degli alieni si sono svolte correttamente e le ha vinte il Partito dei Piccoli Proprietari Terrieri. Peraltro, non mi hanno mai spedito niente, o forse le poste hanno perduto il pacchetto.


nota: uno degli incontri descritti in questo raccontino potrebbe anche essere frutto esclusivo della fantasia del narratore. Potrebbe.

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