13 novembre 2008

Il ritorno a casa

È molto bello il panorama da qui: vedo la città di legno e le mura di pietra, e oltre esse la campagna verde che comincia solo ora ad ingiallire a chiazze. È la mia città, questa, e ne conosco le stagioni: la primavera che non cede ancora il passo all'estate mi fa pensare che l'inverno sia stato lungo e rigido, come capitava a volte al tempo lontano della mia infanzia. Il grano ha atteso a lungo sotto la neve e ha indugiato giorni e giorni prima di sentirsi al sicuro, prima di rialzare la testa e di domandare al sole di aiutarlo a crescere. Solo ora mostra le sue spighe rigogliose, ma sono ancora giovani e avranno molto da maturare prima che sia tempo di chiamare i mietitori. Dall'altra parte, dal lato che non vedo, la città si butta in mare; ma non voglio parlare del mare.
Molto tempo fa ero anch'io un mietitore, quando le campane ci radunavano e salivamo a nugoli alla casa del padrone, sulla cima della collina. Allora avevo il viso liscio e guardavo agli uomini barbuti come a dei vecchi. Oggi che è ornato di baffi folti che non pensavo avrei mai avuto, sento però che il mio viso è quello di un uomo forte e maturo, non certo quello di un vecchio; è proprio vero che tutto è relativo. O forse io alla stessa età sono più giovane di quei vecchi, io che ho smesso da tempo di spezzarmi la schiena nelle campagne, io che ho vissuto bene e guadagnato meglio. Di certo non invidio i ragazzini dal volto glabro come questo che sta passando proprio ora in questa piazza, e si gira verso di me e mi urla qualcosa che non comprendo; vorrei chiedergli che cos'ha detto, ma non credo che sia importante. Ad ogni modo lui è già lontano, e io non riesco neanche a parlare. Non li invidio perché ho già perduto quello che loro sognano. E non credo che esista un modo di conservare i propri sogni, anche rivivendo all'infinito la propria vita. O forse quel ragazzo è come me: ha i vestiti che portavo io quando correvo per queste vie ed avevo ancora il volto liscio. Di sicuro ha i sogni che avevo io, perché i sogni di una piccola città sono sogni banali e non ci vuole molto ad indovinarli.
È ironico che mi trovi qui, costretto a osservare la campagna, io che per tutta la vita ho guardato solo il mare. Ero un mietitore quando mi hanno portato via i pirati, giunti con la bella stagione a razziare il nostro grano e le nostre giovani braccia; allora guardai oltre il mare la mia città che si allontanava, finché non vidi solo il mare. Ero un pirata quando sono tornato nella mia città (in mezzo ci sono i miei sogni realizzati e persi), a rubare le braccia e il lavoro degli altri; ma sono tornato troppo presto -proprio io che conoscevo le stagioni di questo luogo!- e al posto delle spighe d'oro ho trovato solo i cannoni di bronzo.
Adesso sono una testa appesa alla torre più alta della mia città, e sono contento perché così posso osservare il grano che ingiallisce. Se guardo i ragazzi che corrono nelle vie, mi sembra che siano come me; e mi domando quanti di loro finiranno allo stesso modo, una testa senza più corpo e senza più sogni.

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06 novembre 2008

Storie a lieto fine

C'era una volta un uomo che teneva moltissimo alla propria libertà. Costui non permetteva che le sue azioni venissero anche minimamente influenzate dai consigli degli altri (tanto più da quelli più pericolosi di tutti, che venivano da chi gli stava vicino e gli voleva bene); allo stesso modo rifiutava le convenienze e i ricatti e studiava attentamente il modo di rifiutare sempre la scelta più comoda o più attesa. Questo lo portò ben presto ad avere rapporti tesi con familiari ed amici, ma a quell'uomo la propria libertà stava perfino più a cuore del proprio benessere.
Ben presto, tuttavia, quell'uomo, che era molto religioso, si rese conto che la maggiore difficoltà nell'esercizio della libertà è quella di sfuggire all'occhio onnipresente del Creatore o a quello impietoso del destino. Di conseguenza, egli decise di battere il destino e di affermare nell'assoluta improbabilità il suo libero arbitrio: cominciò a dedicarsi ad atti del tutto bizzarri e inconsulti, atti che, così almeno gli pareva, non potevano essere stati previsti da nessuna divinità.
Dapprima lasciò il lavoro, con generale soddisfazione dei suoi colleghi, poi acquistò con la liquidazione notevoli quantità di zenzero e un grosso montone, che divenne il suo migliore amico e principale mezzo di trasporto. In seguito comprò e regalò ad un postino un libro di grammatica armena, venerò un peperone come unico e vero Dio, lo mangiò, rubò la biancheria stesa ad asciugare dalle anziane signore del suo vicolo, scrisse un saggio del tutto privo di documentazione storica sul benigno sistema di governo degli Assiri, lo usò per incartare le uova, le scaricò nel wc, trasportò lo zenzero sul piazzale di un benzinaio, baciò il console della Malaysia, mise delle scarpe molto eleganti e andò a pescare col pensiero: si sedette sul molo con un secchiello al fianco e attese che i pesci vi saltassero dentro. Di ritorno dalla pesca, si recò in biblioteca; là apprese molto sulla progettazione di macchine agricole e ne fece la propria attività principale. Fondò infatti un'azienda di componentistica agricola e la diresse con competenza, divenne ricco e inviò grosse somme di denaro, senza alcun tornaconto personale, a regimi dittatoriali di mezzo mondo. Gli pareva così di agire più velocemente del proprio destino e di riuscire a disorientarlo.
Un giorno l'uomo era al parco e cercava di inserire il proprio pene, per nulla convinto della situazione, nelle orecchie pelose di un procione; a pochi metri di distanza, di là da una siepe che impediva all'uomo di gettare lo sguardo, stava seduta una donna bella e desiderabile, che -stava scritto nel destino da sempre- avrebbe donato all'uomo la serenità e la gioia che tutti noi andiamo cercando. Ma l'uomo non la vide e non la incontrò mai, perché era ormai riuscito nella sua impresa di seminare il proprio fato.
L'uomo rimase solo, e qualche tempo dopo contrasse accidentalmente un virus dei procioni che in breve lo condusse alla tomba. Così morì l'uomo che batté il proprio destino.

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