06 maggio 2008

Il destino dei peccatori

Maledetti bastardi, maledetti bastardi. Hanno distrutto la mia città, maledetti bastardi. Maledetti bastardi, gli idraulici. E dannati noi.
Vivevo a Sapigna (LI); se il nome non vi dice nulla è perché la nostra pazzia e la giustizia l'hanno prima cancellata dalla faccia della terra, poi condannata all'oblio. Eppure era bella, Sapigna: c'era una terrazza che dominava la Val di Cornia, c'era un arco etrusco sotto cui passavano gli apetti con le bombole di gas da consegnare a quelli che vivevano soli, sui poggi appena fuori dall'abitato, e i nostri cani avevano tutti il cappello. Non si trovava un cane a Sapigna che non portasse cappello o berretto, mentre i gatti andavano a capo scoperto e camminavano discosti e scostanti sulle mura giallastre della città. Poi un giorno, dal nulla, sono arrivati gli idraulici e hanno cominciato a parlare di tubature e chiavi, in piazza; sulle prime li stavamo a sentire per curiosità, con un sorriso appena accennato, e li prendevamo in giro con gli occhi mentre continuavamo ad ascoltarli blaterare di vasche, di perdite e delle vie per la salvezza. Alla lunga però le loro chiacchiere si sono insinuate, liquide, fin dentro le nostre orecchie, e sono sgocciolate nel cervello dei sapignesi e vi hanno portato la discordia: ognuno ripeteva i discorsi che sentiva in piazza, ognuno si convinceva che gli idraulici portassero la verità. Ma la interpretava a modo suo, e sempre in maniera da cozzare con l'interpretazione e il pensiero del prossimo, anche quando il prossimo era più sacro del sacro: per una macchia di umidità sono venuti alle mani il padre e il figlio, nella nostra città maledetta, allora piena di cani col cappello. E Dio non ha perdonato questo scandalo.
Noi intanto, ciechi, ci eravamo affidati corpo e anima agli idraulici, che ci comandavano come signori e ci indicavano -maledetti, maledetti; maledetti loro, e dannati noi che abbiamo prestato fede alle loro eresie- come mostrare la nostra fede e rendere manifesta a Dio e agli uomini la nostra grandezza: sciami di tubi si affastellavano attraverso la città, si incrociavano, divenivano gomitoli, si intrecciavano e nascondevano il sole che non batteva più sugli apetti e non ne lucidava il ferro. Un giorno i cani, terrorizzati dal buio della mattina e dal rombo dell'acqua che ogni giorno veniva trascinata un po' più in là, iniziarono ad abbaiare tutti insieme, fin quasi a coprire il frastuono dei lavori. Gli idraulici ci ordinarono di lasciarli andare, e noi aprimmo le porte alla muta infernale che si disperse nelle campagne, zittendosi man mano che constatava la persistenza della luce solare al di fuori di Sapigna. Gli uomini che accolsero quei cani tolsero loro cappelli e berretti; quello fu l'inizio della sparizione di Sapigna. I gatti rimanevano ancora, ma non scendevano più dalla mura e non osavano mettere una sola zampa nel perimetro della nostra città. Se ne andarono in seguito, senza che noi li vedessimo partire.
Ben presto l'acqua fu pompata in ogni angolo della città, arrivò ovunque; vinse la natura e la corrente, e zampillò verso l'alto e risalì i pendii. Sapigna era buia e umida, ma noi godevamo dell'approvazione degli idraulici. I loro elogi crescevano via via che procedeva la costruzione dell'immensa fontana, al centro della città, in cui convergevano tutte le tubature, convogliando anche il rumore pauroso e crescente dell'acqua. Infine ci fummo quasi: c'interrompemmo quando ormai mancava un niente all'allaccio e all'innalzarsi di quel getto che avrebbe bagnato il sole. Placammo la nostra sete e festeggiamo la nostra impresa bevendo alcool, finché non cademmo ubriachi sotto la ragnatela nervosa di tubi, in attesa del nuovo giorno che avrebbe visto esplodere quel getto.
Ma Dio ci precedette. Fu lui a lasciar scorrere la sua acqua sulla nostra città, sia che piangesse per la nostra pazzia, sia che volesse lavare i nostri peccati; in ogni caso Sapigna si gonfiò per un breve momento, come volesse assorbire l'acqua e la rabbia divine, poi si piegò e si disfece. I contadini salirono all'alba sui loro poggi e videro scorrere via i nostri corpi ubriachi e folli, verso il mare o chissà dove. Quando l'acqua si fu ritirata, andarono e cancellarono il poco che restava della nostra città.
Non so quanti di noi si siano risvegliati come me, accarezzati e non uccisi dall'onda. Potrei giurare di aver incontrato un paio di sapignesi; ma non ne sono certo, perché sia io che loro abbiamo subito voltato gli occhi e abbassato lo sguardo, paurosi entrambi, chissà, di rivedere nel viso dell'altro il marchio vergognoso che ci illudevamo fosse stato lavato via.

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