25 giugno 2007

Un paio di dubbi

Niente, due cosette legate all'attualità. Riguardo questo: ma dove sono i poliziotti cattivi quando c'è bisogno di loro? Si sono infinocchiti anche gli sbirri, in questo paese? Quanto invece a quest'altro e a quest'altro ancora, non capisco proprio che aspettino Germania e Russia a rispolverare le buone vecchie abitudini e ad evitare al nostro vecchio e civile continente l'imbarazzo di dover discutere con certi rozzi. E' che sono tutti troppo buoni e i villani ne approfittano senza ritegno.

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21 giugno 2007

Promesse della letteratura

Ricevo, in una busta corredata di alcuni proiettili di mitra, e pubblico volentieri il racconto di una giovane scrittrice. Si chiama masina q. E' un'esordiente, ma vale la pena di seguirla. E poi era anche ora che questo blog puntasse un minimo sulla pornografia come fanno tutti gli altri.

***

Nessun orifizio ci giungeva mai nuovo, a quello fetuso. Così pensavo e intanto allungavo la mano verso il cuscino che quella notte avevo sorresso la sua testa ingellata. Ma il suo capo pulsante di pensieri positivisti che mi avevano innamorata non c’era più: era rimasta solo una pozza di brillantina, untuosa come il suo amore per me. Calogero era già al bar a fare colazione e a vantarsi di come mi aveva punita. Lui mi amava e mi colmava di tenerezze. Mi accostatti alle persiane e le allontanabbi un poco. Il bar era lì di fronte alla facciata del mio palazzo, finemente trapuntata di cazzi di stucco, e non abbey difficoltà a individuare il mio innamorato, dolce come un cannolo immerso nella melassa e rifinito di petrolio. Calogero mi appariede vicino e lontano, animoso e corporeo, santo e mafioso, con il cappuccino in una mano, l’altra mano sul cavallo dei pantaloni; stretto nel pugno, io lo sapevo, c’era il suo pene grifagno, il suo pene saraceno, il pene turco e corsaro che ogni volta sbarcava vittorioso nel mio porticciolo turistico. Gli altri avventori scattavano foto col telefonino.
La prima volta l’avevo visto alla processione di San Pastrugno vergine. Calogero guidava l’Ape con la statua del santo. Stava in piedi sul sedile, fumando e grattandosi. Era notte e lui portava gli occhiali scuri, come mai dimenticava di portarli; ogni tanto sgassava, se attraversava un gattino o un comunista, e le vecchie arrancavano dietro l’apetto con la statua penzoloni. Io ero al balcone del mio palazzo; mio padre, il tiranno, mi aveva surrettiziamente proibito di partecipare alla cerimonia. Come ogni sera, se ne stava sprofondato nell’ampia poltrona foderata di golden retriever, ascoltando musica lirica e sgozzando donnole. Mia madre, la martire, faceva il segno della croce e singhiozzava, poi singhiozzava e faceva il segno della croce, poi da capo, tipo gioca jouer. Dal ghigno pasquale di lui comprisi che anche quella notte l’avrebbe posseduta con la forza, grugnendo e sparando in aria come faceva sempre, mentre lei mormorava la formazione dello Steaua campione d’Europa. Mia madre, condannata a essere pestata e a godere come una femmina di zebù. Io mi appoggiatti alla balaustra, languida come una sfogliatella napoletana, e fu allora che Calogero mi notatte. Frenatte di colpo e San Pastrugno volò via, fino a spetasciarsi contro la caserma dei carabinieri frantumandosi in mille pezzi, ognuno degno di venerazione. Calogero mi guardò dietro le sue lenti a goccia. Io sfregatti il deretano sulle colonnine del balcone, in segno di buon augurio. Capì, neozelandese com’era: ammucchiando anziane fedeli, saliede fino al mio terrazzo e mi strinse la mano con passione e grasso d’officina. Io lo baciatti lì. Mio padre ruggette di gelosia: la sua unica figlia nella mani capaci e rapinose di un altro uomo! Solo il sacrificio di mia madre, che si piegatte dinanzi a lui e assumé la posizione del dagherrotipo, salvò a me e a Calogero dalla tremenda vendetta dell’allevatore di donnole. Egli annusò la natura femminile, poi la prese e ne godde; finché non esplodette il suo seme con ululato disperato di cacciatore alla luna. Poi cadette nel sonno senza sogni tra i cadaveri degli animaletti, morti e ancora caldi.
Da allora io e Calogero siamo una cosa sola. Al limite c’è qualche amico suo, se proprio insiste e lo chiede con educazione.

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16 giugno 2007

Tempo di bilanci

Non ho più voglia di fare un cazzo. Per come la vedo io, nella mia vita ho realizzato abbastanza. Ho defecato in un archivio di stato montenegrino, voglio dire, non è cosa che capiti a tutti nell’arco di un’esistenza. Ne parlavo giusto ieri con un estraneo dallo sguardo inquietante, mentre ero in fila alle poste: lui mi ha dato ragione storcendo la bocca e mugugnando, poi si è scusato con me ed ha ricominciato a parlare con il suo ingombrante amico immaginario, l’orso Mardonio. Rinfrancato dalle parole del tizio alle poste, mi sono convinto che anche io valgo e ho telefonato all’Inps per sapere se si può avere una pensione a ventisei anni senza aver mai lavorato. Sono stati corretti, però un po’ bruschi: mi hanno chiesto senz’altro perché diamine avessi aspettato tutto questo tempo per accorgermi di non essere atto alla fatica. Queste sono pratiche che si devono compilare per tempo; a diciassette, diciotto, massimo vent’anni è bene che uno prenda atto della propria condizione di infingardo e si appresti a vivere i successivi cinquanta-sessanta anni sulle spalle della collettività. Gli impiegati si sono perciò sentiti di escludere che la mia domanda tanto tardiva potesse giungere a buon fine. Tuttavia, mi hanno detto, c’è sempre la possibilità del vitalizio per particolari meriti verso lo Stato e la Nazione. Lì mi sono incuriosito. Cavolo, se non lo danno a me che ho fatto vincere all’Italia una Coppa del Mondo*, non vedo proprio a chi assegnarlo, ‘sto cacchio di vitalizio!
Dopo qualche giorno mi sono giunti a casa i fogli per l’inoltro della pratica. Sono sceso in infradito e maglietta del Gladbach, ho ringraziato il postino commentando favorevolmente le prestazioni sessuali della sua signora, poi sono risalito e mi sono seduto alla scrivania ad esaminare le carte. Purtroppo in tv davano “Boomer il cane intelligente”, per cui non avevo il tempo di leggere tutte quelle righe strette e irte di numeri. Ho buttato giù un po’ di crocette a caso, poi ho infilato il plico –non affrancato- sotto la porta del mio vicino di casa vietnamita e l’ho pregato di recarsi a spedire il tutto. In cambio gli ho promesso che non avrei mai più messo La cavalcata delle Valchirie a tutto volume quando la domenica si riunisce a mangiare riso e vincesgrassi coi parenti e che allo stesso modo non avrei imitato con la bocca il rumore degli elicotteri che mitragliano gli innocenti. Si è trattato di un compromesso doloroso ma necessario; d’altronde credo che non vi terrò fede, ora che ci penso meglio.
Ieri, infine, mi è arrivata la comunicazione dal Ministero del Tesoro che in quanto combattente garibaldino a Calatafimi, membro fondatore dell’Udeur, maratonomaco, poeta elegiaco angolano, volontario della divisione Charlemagne delle SS e orfano di prozio ho diritto a 1830 euro mensili. Per fortuna viviamo ancora in un Paese civile che non ha dimenticato il valore della gratitudine e che sa premiare i suoi figli più onorevoli e generosi! Alla faccia delle Cassandre e dei giornalisti di Report. Ho passato il resto della giornata nudo ed immobile sul divano, congratulandomi con la nobile Repubblica Italiana e con me stesso che ne sono cittadino illustre.
E poi ho deciso di scendere in piazza contro la riforma delle pensioni di cui si fa un gran parlare. I diritti acquisiti non si toccano, porca merda.

*Stando seduto al medesimo posto con la medesima polo a righe nella medesima birreria di Norimberga sia il giorno di Germania-Italia 0-2 che quello di (omissis)-Italia 4-6.

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08 giugno 2007

La peste del terzo millennio

Per troppo tempo è stata una realtà sottovalutata. Eppure era sotto gli occhi di tutti: le madri hanno taciuto di fronte ai figli, le mogli davanti ai mariti, le ragazze non hanno prestato attenzione ai loro rapporti occasionali. Oggi, finalmente, l’attenzione della comunità internazionale si è risvegliata. I medici e i ricercatori di tutto il mondo si sono riuniti, hanno cominciato a scambiare dati ed esperienze, hanno creato una speranza per il futuro. Ma per molti uomini non c’è più nulla da fare: sono caduti vittime, ignare ed innocenti, della sindrome della palla più scesa (SPPS*). E non esiste vaccino. Quante volte infilandosi i boxer, o provando il costume a calzoncino che piace tanto a lei –si sa che la donna pensa solo all’estetica; non capisce e non immagina il grave pericolo rappresentato dal pesce azzurro che si infila nella braga con l’unico scopo di mangiarti il glande- l’uomo si è reso conto con inquietudine di una nuova e sgradevole asimmetria. “Tornerà su domani”, si pensa in questi casi, con criminale noncuranza. Ma quel domani non giungerà mai: sarete maturi, poi vecchi, infine morirete, e il testicolo malfidato continuerà a scendere senza posa come le borse del Sudest asiatico nel 1997. Abbiamo detto tuttavia che non c’è, al momento, alcuna cura: milioni di donne sono condannate a dormire accanto ad un uomo provato da questa tremenda esperienza, milioni di uomini devono rinunciare a mettere le loro amate mutande, magari con la canottiera infilata dentro di esse a creare le gloriose alucce, per la subdola presenza di un coglione fermamente deciso a far capolino ovunque. Un po’ come quel tizio coi capelli lunghi che rompeva le palle –tutto torna- in tv qualche anno fa, non so se avete presente (Gabriele Paolini?). Ebbene, se non c’è cura, bisognerà forse rassegnarsi? Nossignore. Abbiamo raccolto qualche tempo fa in una camera d’albergo arredata con gusto sobrio, a margine dell’ottavo convegno sulla SUB, promosso quest’anno dalla sezione austriaca di “Medici senza frontiere”, le parole di una delle maggiori autorità in materia, la dottoressa Karina Lindqvist dell’università di Lund.
“Vedi”, ci confidò questa con franchezza nordica, mentre accomodava con grazia il suo capo rilucente sul cuscino, “il distacco della palla si opera in condizioni di particolare freddezza; il testicolo, stanco e convinto di non essere valutato per quelle che sono le sue reali capacità, un bel giorno si stanca del suo collega e di quel maledetto che continua da anni a stillargli addosso gocce di piscio stantio; e si allontana. Certo, si tratta di un allontanamento relativo, data l’assoluta mancanza di mezzi di locomozione e l’impossibilità di trovare affitti alla portata di un coglione del genere; pure esso segna un trauma e una rottura nell’impianto armonico –masacciano, direi quasi- della trinità virile. Tu mi capisci, vero?”.
Io pensavo alla Città Ideale e annuii soltanto. Mi scostai poi dalla finestra, lentamente, finché non scomparvero alla vista le isole del Danubio e la copertura intarsiata del Duomo di Santo Stefano. Mi volsi verso la luminare e le chiesi soltanto:”Ed è possibile prevenire questa freddezza?”.
Lei si sollevò a sedere sul letto, con un gesto adorabilmente possente, e per un attimo i suoi capelli formarono una corona d’oro attorno al pallido ovale di donna di scienze.
“In effetti, secondo i nostri studi più recenti, combattere l’insorgenza di questo male non è un’impresa disperata. Si richiede soltanto che la donna presti attenzione allo stato nervoso del suo partner; e quando questi denota maggiore ansia, rabbia, stress –che so, mentre lui sta compilando la dichiarazione dei redditi, o quando guarda il Nastic di Tarragona e bestemmia perché quel tamarro di Portillo gli ha appena fatto perdere 130 euro alla Snai, o mentre è impegnato senza speranza di successo nella comprensione delle sfumature della mistica bizantina- ella si avvicini e afferri con dolcezza il sacchettino. La prima reazione dell’uomo sarà di sorpresa; ma ben presto un sentimento di calore e unitarietà pervaderà la sua anima e, quel che più interessa ora, le sue parti basse. Tu mi capisci, vero?”, domando di nuovo, sinceramente interessata alla mia opinione.
La rassicurai caldamente e con fervore di aver afferrato la questione. Ricordo tuttora con piacere quella giornata, in cui capii che qualsiasi progresso scientifico è inane, se non è accompagnato dalla collaborazione e dalla passione umana.

*Universalmente nota come SUB (Syndrom des untergegangeneren Balles) come fu battezzata dalla sua scopritrice, la dottoressa Gerta Blauerhund dell’università di Francoforte sull’Oder.

E buon San Medardo a tutti.

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04 giugno 2007

I vegetariani devono stare zitti

(Dal nostro inviato Lukas Sterlini)
CUNEO-I modi sono quelli sobri ed educati della piccola borghesia produttiva; nessuno fa mercato del proprio dolore, in questo salotto arredato con una semplicità che non indulge al kitsch, tuttavia la famiglia Ortis non può certo nascondere il dramma che ne ha sconvolto la vita. Massimiliano avrebbe compiuto ventun anni il prossimo giugno; la mamma aveva già comprato per lui, con un’impazienza affettuosa che avrebbe fatto sorridere e che ora si rivela tragica, un maglioncino blu. “Ora lo daremo ai poveri della Parrocchia”, dice piano, ma con voce ferma, il capofamiglia Franco. “Nostro figlio non ha più bisogno di vestiti buoni”. La moglie Miriana annuisce soltanto; ma non smette di stropicciare tra le mani il regalo che suo figlio non vedrà.
Franco è uno spinacio. “Mio padre e mio nonno erano spinaci, al paese, su in montagna”, ci dice, e fa un gesto vago, verso la finestra dietro cui incombono i picchi blu delle Alpi, “sa com’era a quei tempi… Lo sono diventato anch’io, appena ne ho avuto l’età, quasi senza rendermene conto. Del resto non ho mai chiesto nient’altro alla mia vita. Ho avuto un mestiere, una famiglia, una serenità… Adesso non so cosa resterà. Da qualcosa dovremo ripartire”. Le mani grandi e callose non gesticolano; restano ferme a mezz’aria, con i gomiti appoggiati alle cosce, e sembrano quasi prive di vita. Per un istante, Franco guarda nel vuoto, e chissà cosa vede. Poi si riscuote e stringe la mano della sua donna, con forza e tenerezza. Ci sentiamo fuori luogo, quasi non riusciamo a fare quello che pure è il nostro mestiere e il nostro dovere; la dignità di questa famiglia ci disarma. Questa è l’Italia viva e morale che diamo spesso per scomparsa. Dispiace davvero che sia un fatto di cronaca così efferato a rivelarne di nuovo l’esistenza.
Viene in aiuto al nostro disagio l’altro figlio. Si chiama Morgan, porta nel nome l’esotismo ingenuo della provincia profonda; ma conserva intere nelle maniere e nello sguardo la solidità e la dirittura dei suoi maggiori. Ci racconta del fratello, mostrandoci le foto dei momenti felici e di quelli importanti, la maglia a quarti rossoblù con cui il venerdì giocava a calcetto con gli amici, la camera con due letti in cui sono cresciuti assieme. Non c’è nessuna ragazza a disperarsi per la perdita di quel giovane virgulto. “Massimiliano era uno spinacio all’antica, per certi aspetti. Studiava molto, sa com’è, e almeno con le donne non desiderava ancora impegnarsi. D’altra parte, è meglio così. Almeno siamo in meno a piangerlo”. Domandiamo a Morgan se ha visto le foto del corpo straziato del fratello. “Sì”, risponde con tono cupo e volto impenetrabile, “i poliziotti mi avevano detto che erano foto piuttosto crude, ma volevo sapere quello che avevano fatto a mio fratello. Era vivo quando l’hanno messo a bollire, lo sa?”. Quest’ultima frase la pronuncia a voce improvvisamente alta e nervosa. La madre, sempre seduta, non può trattenere un nuovo attacco di pianto. Il padre lancia un’occhiata di fuoco all’unico figlio rimasto. Anche nel dolore, non è permesso il risentimento cieco, non è concessa la mancanza di misura. Morgan guarda fuori della finestra, con i pugni stretti in tasca.
Il colpevole è già stato rintracciato dalla polizia ed ha confessato immediatamente. Ha chiesto quando potrà tornare a casa, non si rende ancora conto della gravità del suo misfatto. Ha incontrato Massimiliano l’altro giorno, al supermercato, erano al banco dei surgelati. Non ha avuto nessuna remora a mettere in atto il suo piano criminoso, né ha fatto nulla per nascondere le prove. Quando gli agenti della Mobile di Genova hanno fatto irruzione nella casa dell’orrore, la padella in cui lo spinacio aveva subito l’estremo insulto non era stata neanche pulita. Un collega genovese era sul posto al momento dell’arresto: è riuscito a fare un paio di domande al sorpresissimo criminale. Questi si è accarezzato i dreadlock e ha detto che non gli risultava neanche che gli spinaci soffrissero.
Se fosse stato qui, in questa villetta costruita con le proprie mani dal capofamiglia, desideroso di lasciare una casa (il bene stabile per eccellenza; il bene supremo, nella provincia sana) ai suoi due figli maschi, avrebbe capito la verità: è menzogna sostenere che essi non soffrano. Lo fanno in silenzio, ma lo fanno. Forse, allora, si può suppore con amarezza che viviamo in tempi tali che l’integrità e la rettezza d’animo divengono una condanna a morte.

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