29 maggio 2007

Einmal ist keinmal

Quello che segue è il racconto di un caso strano, eppure assolutamente veritiero. Ho riflettuto per qualche tempo se fosse opportuno o no metterlo per iscritto, o se invece non fosse preferibile tacerlo anche a me stesso (mi fa sorridere pensare che avrei potuto tenermi all’oscuro di tutto. Forse ora quest’ilarità vi appare oscura, ma una volta che avrete letto capirete); dacché sono infine giunto alla conclusione di descrivere il tutto, non avrebbe ovviamente senso che non lo leggesse nessuno, per cui lo affiggo qui in questa bacheca celeste. In qualche modo chiamo voi lettori a testimoni della mia sanità mentale, col mettervi a parte dell’incredibile vicenda che mi è accaduta; ma è bene che dia un taglio a quest’introduzione e mi accinga a raccontare.
Un paio di settimane fa sono salito sulla montagna a godermi la primavera che sta esplodendo in tutta una varietà di verdi, molti dei quali caratteristici e peculiari di questa terra. Mi sarei volentieri sdraiato a guardare le nuvole che trotterellavano in cielo; ma in Montenegro un appezzamento di pianura vasto come il corpo di un giovane uomo è raro e quasi introvabile, perciò sono rimasto in piedi e ho camminato un po’. Sotto di me si stendeva languida la città. Ho deciso di imitare le peggiori abitudini dei turisti e invece di vivere mi sono messo a fotografare. Da quella posizione elevata era visibile anche l’edificio in cui abito ora, con la finestra del mio appartamento: ho fatto ricorso allo zoom e l’ho immortalata, per avere un ricordo dei posti che sono stati miei. Appena ho esaminato la foto, mi è saltato agli occhi un dettaglio che non avevo notato e che non mi aspettavo: un uomo dai capelli neri, singolarmente simile a me, era seduto al tavolo della cucina e sembrava impegnato al mio portatile. Un intruso in casa mia! Eppure mi pareva di aver chiuso a chiave. “D’altro canto”, riflettevo scendendo a larghi passi dal monte, “non ho idea di chi possegga la copia delle mie chiavi di casa. Può anche darsi che sia io a possedere le copie, mentre l’originale è nelle mani di qualcun altro. O forse l’originale di fatto non esiste, e su questa terra anche la prima chiave non è che un rifacimento tangibile della chiave ideale che deve necessariamente aprire quella porta”; ma ho respinto quelle divagazioni vagamente borgesiane e mi sono dedicato piuttosto a correre. C’è tutto il mio lavoro in quel computer, diamine. Ho fatto le scale di corsa e mi sono gettato sulla porta: era chiusa a chiave! Terrorizzato dall’eventualità che l’estraneo se ne fosse già andato con le mie cose, ho aperto in un attimo: e ho fatto in tempo a vedere un tizio in polo, coi jeans risvoltati, che saltava in strada dalla mia finestra. Ho dato una rapida occhiata in casa e ho constatato che non pareva mancare nulla, poi ho imitato l’intruso che mi somigliava e mi sono buttato sul pavimento sconnesso della città vecchia. Lui era là in fondo, aveva quasi perso l’equilibrio mentre svoltava verso la piazza delle due chiese ortodosse; la commessa del negozio di calze, sulla porta, lo stava osservando distrattamente. Quando però le sono passato davanti, da disinteressata è parsa d’improvviso sgomenta: è impallidita e si è fatta il segno della croce. L’ho guardata per un paio di secondi, senza capire, poi ho proseguito. Sotto la grande bandiera serba che domina la maggiore delle chiese ho girato intorno lo sguardo, cercando di capire dove si fosse infilato il mio uomo. Ho scorto solo una scarpa azzurra in movimento, nel vicolo della libreria, ma tanto mi è bastato per individuarlo: mi sono gettato al suo inseguimento. Doveva essere poco pratico della città, giacché neanche tentava di seminarmi nell’intrico delle viuzze; si dirigeva apertamente alla piazza principale, dove contava verosimilmente di far perdere le sue tracce nella folla dei turisti o di sfuggirmi uscendo verso il porto. Non avevo molto tempo per adocchiare le persone che sfrecciavano intorno a me, eppure in ogni stradina che attraversavo si ripeteva la stessa scena, troppo uguale a se stessa per non risultare curiosa: gli stessi volti increduli, le stesse espressioni stranite, le stesse esclamazioni –di cui non potevo afferrare il senso; ma ne avvertivo il tono. Siamo infine sbucati nella grande piazza dell’orologio. Lo vedevo vicinissimo, ormai, potevo quasi afferrare il suo colletto a righe; quando si è fatta avanti, compatta, una comitiva di pensionati austriaci. Lui è riuscito a penetrare giusto in tempo tra i robusti anziani stiriani, mentre io mi sono trovato nel folto di quella selva di capelli bianchi e non ho avuto cuore di urtarne un paio per passare. Ho potuto solo osservarlo mentre infilava la porta della marina, ormai irraggiungibile per me. Un vecchietto dalla gambe magrissime mi ha fissato a lungo, per poi esclamare Das kann nicht sein!
Was meinen Sie?, ho ribattuto, ma non ho ottenuto risposta. Continuava a scuotere la testa e non aggiungeva nulla.
Mi sono quindi diretto ai bastioni per avere una visuale ampia della zona del porto. Non occorre dire che è stata grande la mia sorpresa quando mi sono visto: ero vestito come l’estraneo che stava al mio computer e stavo salendo su un autobus. Ho compreso tutto e sono tornato a casa percorrendo gli stessi vicoli che poco prima avevo divorato sotto i piedi. La gente che mi incrociava mi guardava strano: evidentemente a loro quella mattina non era capitato di incontrarsi.
Dopo di allora ho provato un paio di volte a tornare prima dal lavoro, per controllare se per caso fossi di nuovo lì; ma devo aver preso le mie precauzioni, perché non mi sono più visto.
L’inatteso incontro di quella mattina mi ha lasciato solo un’eredità: un breve testo, che ho ritrovato nel mio portatile e che dev’esser stato scritto mentre io ero al monte. Si tratta di una variazione sul tema –per la verità piuttosto trito- del doppio; non l’ho giudicato granché originale, ma non escludo un giorno di pubblicarlo perché possiate farvene anche voi un’idea.

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