09 aprile 2007

Memorie da sopra il suolo


Mi suda il cuore e fremono le tempie. Ho le costole bagnate, sento con certezza che lo sono, e lo sterno, al suo interno, è madido di sudore freddo. Sono salito alla fortezza veneziana, stamattina*. Posso affermare recisamente che chiamarla fortezza non rende affatto l’idea: si tratta invece di una lunga, per la verità quasi infinita, teoria di terrazzamenti e muraglioni, ognuno dei quali vigila e domina il sottostante; e tutti assieme questi vermi di pietra antica si inerpicano per la montagna, fino a metterle le briglie alla notevole altezza alla quale sventola la bandiera con l’aquila. Ma sto perdendo di vista l’oggetto del racconto: fatto sta che ad una delle svolte delle mura mi sono trovato di fronte un bastione secondario, raggiungibile attraverso una stretta lingua murata, su una scarpata d’altronde piuttosto bassa. Ho deciso allora di abbandonare momentaneamente il serpente, che del resto continuava placido a salire anche senza di me, per andare a gustare il panorama da quel torrione. Con la tranquillità che mi dà un’infanzia passata in collina e avvezza ai sentieri petrosi, mi sono lasciato indietro i gradini sconnessi e i grossi fiori gialli di cui ignoro il nome e sono giunto alla meta della mia deviazione. Non si vedeva nulla di che, in effetti. Solo una ragazza seduta ed assorta in una delle grandi feritoie da cui si poteva cannoneggiare il folle dai piedi di capra che avesse deciso di scendere dal fianco del monte per assalire la città, laggiù in fondo. Perciò, deluso, ho deciso di scendere ancora e ho infilato le scale, pressoché distrutte, che portano alla base del possente torrione. Mentre camminavo con attenzione ma senza patemi mi sono reso conto con terrore dell’altezza di quel bastione e del fatto che sorgeva quasi a picco su uno sperone di roccia, non sui consueti terrazzamenti. Ho pensato che solo uno stupido molto tranquillo come me poteva arrivare quasi ad appoggiarsi al minuscolo parapetto –malridotto e d’altronde già destinato in origine a ricoverare uomini piuttosto bassi- e non accorgersi di nulla, se non dopo. Rimproverandomi ed imprecando, ho pensato di scendere ancora, così da ricollegarmi al serpentone ad un’altezza minore, presso uno dei tornanti che avevo già percorso. Mentre mi tranquillizzavo in questo modo, mi sono accorto che in realtà la deviazione mi aveva condotto troppo lateralmente: nessun sentiero univa il bastione e le mura adiacenti alla strada per la sommità. Solo gli scalini che avevo già disceso potevamo riportarmi alla via. Ed intanto ero sceso ancora di una rampa, fino ad un prato sommamente selvatico ed abbandonato. Qui, come descritto sopra, le tempie hanno cominciato a pulsare e il cuore si è bagnato, mentre la bocca si seccava. Mi sono girato e sono tornato indietro, perché non c’era altro da fare. Ho camminato con mani e piedi per due rampe di scale, per ridurmi ad un’altezza tale da consentire al parapetto di servire a qualcosa. Sentivo, sebbene non abbia avuto il coraggio o l’incoscienza di accertarmene, che di lato e sotto c’era lo strapiombo.
Considerate che io non soffro di vertigini. A Parigi, sono tranquillamente salito all’ultimo piano della Torre Eiffel, esperienza che ritengo sia preclusa a chi ha il terrore dell’altezza. Però mi è successo piuttosto di recente, con mia sorpresa e con vero sgomento, di avere degli attacchi di questo male subdolo. Da allora soffro del terrore di essere colto dalla vertigine, che è peggio della certezza di averla. Ho le prevertigini selettive, direi; e più di tutti le ho quando sento che dovrei averle e che dovrei aver paura di averle. Oltretutto si tratta di un disturbo a suo modo affascinante; perlomeno, nei due casi in cui sono stato colpito da esso, mi è balenata questa considerazione. C’è un piacere insano, ma non per questo meno voluttuoso e quasi sensuale, nel forzare la propria natura avvicinandosi all’abisso che si teme con tutte le forze. Il corpo, che è saggio ed ovviamente spinto ad autoconservarsi, non vuole alcun movimento che non sia quello di allontanarsi dal baratro e fuggire, fuggire, fuggire verso terra; ma la coscienza e l’intelletto possono comunque violentare le membra e costringerle ad avvicinarsi, ad afferrare il parapetto o la ringhiera con movimenti goffi e inconsulti, a guardare di sotto. Credo che qui stia gran parte dell’imperfezione e del dramma della condizione umana: nella superiorità che ha il pensiero, anche quando è stupido e dannoso, sull’azione. Un uomo che fosse più animale vivrebbe nel mondo in maniera definitivamente più sensata e felice. Ma eravamo rimasti al mio cuore sudato e al torrione risalito. Qui ho avuto bisogno di qualche istante per riguadagnare calma e coordinazione, ragion per cui mi sono anch’io accartocciato in un’ampia feritoia. Intanto la mente andava, libera.
Siccome sono uso riciclare i pensieri –e, data la situazione, questa volta posso perfino venir scusato- mi è sovvenuta la prima volta che ho avuto le vertigini (i pensieri migliori li utilizzo una tale infinità di volte che finiscono per essere tondi e bianchi come sassi di fiume, perfettamente levigati, senza asperità sconosciute. Eppure funzionano ancora, come le falci dei nostri mezzadri di un tempo, usate e riaffilate così tante volte che sembra non ci sia più il metallo: si direbbe che sia rimasto solo il filo, ma esse continuano a tagliare): successe a Pisa, un anno e mezzo fa. Ero là in compagnia, e ricordo anzi che fui io a fare pressione sulla mia donna affinché salissimo sulla torre, che avevo visto solo da bambino e che avevo del tutto dimenticato.
La Torre di Pisa è tutto sommato bassa. Il panorama che si gode da essa è deludente: si domina per la verità l’Arena Garibaldi ed è probabile che si potrebbe guardare la partita in maniera sufficientemente chiara; ma in primo luogo nessuno sale su uno dei capolavori dell’arte mondiale per mettersi ad osservare Pisa-Sassuolo, secondariamente le visite durano solo un’ora, non l’ora e tre quarti più recupero che sarebbe necessaria, il che taglia la testa al toro. Mentre ero impegnato in queste profonde considerazioni mi accorsi che il corpo era attratto dal vuoto sottostante. Contemporaneamente, esso mi diceva di allontanarmi e di scappare. La novità di quelle sensazioni contrastanti, che lì per lì attribuii alla pendenza**, mi fecero tremare le gambe e mi atterrirono. Sono rimasto bloccato circa un quarto d’ora, tenendo la ringhiera ben stretta con la mano, all’estremità del mio braccio teso. Per fortuna ho le braccia lunghe. F. non si accorse di nulla, almeno sulle prime, perché io –per machismo? per pura stupidità? non saprei- affettavo disinvoltura, provando anche a girare per la circonferenza della torre, fingendo di essere interessato agli orrendi dintorni di Pisa.
Poi ha capito, mi ha sorriso e mi ha preso per mano.
Quando la visita è terminata mi è dispiaciuto dover scendere e mettermi al sicuro, staccandomi da quel parapetto, dopo interminabili minuti in cui davvero ho temuto di poter diventare materia per un’improvvisata ed inaspettata autopsia a diletto dei musi gialli sottostanti. Mi ero affezionato a quella paura e a quel malessere: ho percepito distintamente l’attrazione che mi legava al timore. Perché le vertigini sono così, non si tratta di un male che si detesta e si desidera semplicemente scompaia. Tutta un’altra cosa: è un dolore cui si dura fatica a rinunciare, come quando sai che devi lasciare una donna –o che lei deve lasciarti, non fa differenza- e hai ancora desiderio di baciarla. E continui effettivamente a baciarla, benché ogni bacio si conficchi in petto; e dolga, dolga dannatamente.
Ma forse questa similitudine non è per nulla pertinente, invece. Devo lavorare sui paragoni, o non imparerò mai a scrivere decentemente.

*Che è un’altra mattina rispetto a quella del giorno in cui questa roba verrà pubblicata; ad essere onesti, questo caso –del tutto veritiero- non risale neanche allo stesso giorno in cui mi sono messo alla tastiera a descriverlo. Ma non rompete i coglioni, per una volta fate conto che io sia uno scrittore serio e tacete.
**Giacché, pensate un po’ che stranezza, a Pisa c’è una torre che pende. Se vi capita di passare per quella città, visitatela: è una cosa bianca in un posto verde.

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