26 aprile 2007

Supponiamo un amore

Agli occhi di lui era la donna più bella del mondo. La guardava in silenzio, assorto e composto per ore e ore; e per un sorriso di lei, un semplice sorriso, sussultava sulla sedia. Poi sorrideva a sua volta, inconsapevolmente; sorrideva ebete per parecchi minuti e chi gli stava a fianco lo prendeva in giro più o meno apertamente. I suoi capelli neri lucidi, la sua pelle di un rosa molto più scuro e verde del suo, non sapeva neanche come si chiamasse quel colore, gli parevano meravigliosi e ineguagliabili. “Ma ci sarà al mondo una donna bella come lei?”, pensava così (che potesse esserlo anche di più, era un’ipotesi che non gli era mai venuta in mente). Non per retorica; non sapeva proprio cosa fosse la retorica, a dire il vero. Non è che conoscesse granché del mondo, lui, se vogliamo essere onesti e trasparenti. Sapeva solo che quegli occhi gialli, che ogni volta non poteva smettere di fissare, fino a che lei non doveva allontanarlo con gentilezza ma con una certa decisione, quegli occhi gialli lo avevano stregato. Sarebbe rimasto a guardarli per un tempo infinito, ritrovando in loro impressioni sempre nuove. Un po’ come i bambini che si inginocchiano davanti alla poltrona dove esso dormicchia e si piazzano lì incantati dagli occhi mutevoli del gatto di casa, mentre il felino si domanda che diavolo vorrà quel nano. E il seno di lei! Dio mio, che seno aveva! Non che l’avesse mai visto bene bene; l’abbigliamento della donna era generalmente comodo ma casto e –parliamoci chiaro- lei non avrebbe neanche lontanamente preso in considerazione l’idea di spogliarsi davanti a lui, un giorno. Ma lui, benché fosse molto ben educato, ogni tanto trovava il modo e l’angolazione giusta per avere una discreta visuale. Gli sembrava bellissimo e scurissimo. L’ultimo seno che ricordava era bianco e grande, morbido e saporito. Certo non dimenticava quelle mammelle gonfie con cui aveva avuto lunga familiarità, ma stavolta era una cosa diversa. Ora lui provava sensazioni nuove, del tutto nuove, davvero mai provate prima, e nuovi impulsi verso il corpo di lei. Le poche volte che aveva abbracciato il corpo vasto della donna aveva avvertito una pace, una felicità, una voglia di rimanere così per sempre –stretti, indivisibili- che avrebbe inseguito per tutta la vita. Lui era innamorato in modo totale e sincero, anche se forse non era consapevole di esserlo e non sarebbe stato in grado di trovare le parole per descrivere la situazione. La bellissima donna mora gli voleva bene, gli voleva bene profondamente: ma non era innamorata di lui, non poteva esserlo, non lo sarebbe mai stata. Lui questo l’aveva confusamente capito e ne soffriva; ma non poteva farci proprio nulla, almeno così gli pareva. Del resto, lui aveva sei anni e lei era la sua maestra.

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21 aprile 2007

Geopolitica per principianti

Era un bel mattino di sole, quando il sindaco di Belgrado, trafitto da un’improvvisa consapevolezza, smise d’un tratto di assaporare i suoi due quotidiani ovetti sbattuti e si affacciò alla finestra del suo bilocale.
-Gordana! Gordana!, prese ad urlare a squarciagola, con la voce eccitata come quella d’un ragazzino che invita i suoi amichetti a godere di un qualche spettacolo proibito.
–Che c’è, colombella mia, piccioncino mio impareggiabile?, rispose la grossa e affabile Gordana, comparendo nella stanza con un piumino in mano e le guance rosse di fatica e di salute.
-Guarda le macchine in strada, Gordana: sono tutte targate BG! Vieni qui a vedere, Gordana!, e la chiamò al suo fianco, battendo la mano dalla larga palma sulla coscia muscolosa di slavo del sud.
La domestica lo guardò con affetto, senza peraltro far mostra di comprendere le conseguenze rivoluzionarie della cosa. Eppure ce ne furono! Lasciami narrare, lettore, e vedrai anche tu che ce ne furono, né si trattò di bagatelle!
Con le mani ancora appiccicaticce di zucchero, il sindaco di Belgrado alzò la cornetta e telefonò al suo omologo di Bergamo (BG).
-Pronto?, rispose stancamente quest’ultimo, che stava appendendo i calzini al sole, sotto l’energica e minacciosa sorveglianza della moglie.
-Compagno! Amico! Compatriota!
Un vero torrente di parole fluì da quell’apparecchio! Per un attimo, il sindaco di Bergamo lo allontanò dall’orecchio, sorpreso e quasi rimbambito. Poi colse l’occasione con vero acume, fece segno alla moglie che si trattava di un importante affare di Stato e si allontanò da quei dannati calzini blu che sgocciolavano sulle piastrelle del cortile.
-Ma chi è che parla?, domandò allora il primo cittadino di Bergamo.
-Sono io! Il capo di Belgrado!, proclamò non senza esagerare l’altro capo del filo.
Il bergamasco si dispose ad ascoltare. Si sedette sotto la pergola, accostò una seggiola al tavolo e si apprestò a prendere appunti a margine di un albo di Garfield che aveva ormai terminato di leggere.
-Compagno! Amico! Compatriota!, riprese il primo cittadino della metropoli serba, Come ho potuto essere così cieco? Solo oggi mi sono reso conto della nostra vicinanza letterale!
-BG anche voi?, domandò il princeps degli orobici, che stava cominciando a vederci chiaro.
-Già! Anche noi! Certo, è una mera identità di forma…
-….ma la forma è sostanza, dico male?
-Vi siete espresso bene, invece, carissimo collega! Ho pensato dunque: perché non ci uniamo? Congiungendo la vostra solidità economica, la vostra tenacia, il valore artistico della vostra città capoluogo con il prestigio della nostra università, la nostra favorevole posizione geografica, la nostra tradizione di centro intellettuale e dinamico dei popoli slavi del sud, potremo realizzare entrambi un grosso guadagno e dialogare da pari a pari con le potenze mondiali. Ditemi se sbaglio, carissimo collega!
I due s’intesero ben bene, caro lettore! Da lì in poi fu tutta discesa. Già il giorno seguente i rispettivi consigli comunali votarono all’unanimità l’unione libera, eterna ed inscindibile del popolo bergamasco e di quello belgradese. I territori circostanti non tardarono a seguire l’esempio dei capoluoghi e si accostarono a quella nuova e seducente realtà. Ci fu per la verità un astuto tentativo di sabotaggio, effettuato dal sindaco di Zagabria (ZG), il quale fece balenare la prospettiva di una unione concorrente al suo omologo di Zingonia. Quest’ultimo, tuttavia, notificò la proposta al neonato soviet belberghese (o belgramasco, che dir si voglia), che rilanciò stabilendo che da quel momento in avanti la Coppa Campioni (o Campiù) conquistata nel 1991 dalla Stella Rossa sarebbe stata esposta per sei mesi nei locali del centro sportivo di Zingonia, che avrebbe egualmente ospitato gli allenamenti della suddetta Stella Rossa e del Partizan, mentre l’Atalanta avrebbe giocato per il futuro al Marakana di Belgrado. A quel punto l’offerta croata era superata. Sulle prime, peraltro, l’effetto delle maglie nerazzurre sugli ultras belgradesi fu piuttosto straniante: ma ben presto si appassionarono anch’essi alla Dea e comparvero sui muri serbi i primi graffiti anti-bresciani in cirillico. Tipo Бреса суни, roba del genere. Mentre fervevano i festeggiamenti per la feconda unione, con annessi concerti turbofolk nelle pittoresche piazze di Bergamo Alta (moj Bergheme, zagrli me, si sentì risuonare), gli inviati della Repubblica di Bulgaria, a cavallo di uno sciame di Lambrette munite di targa internazionale su cui svettavano le lettere BG, comparvero nei palazzi del governo orobalcanico. Quando videro quella targa, i deputati serbergamaschi esplosero in un grido di gioia selvaggia, precipitandosi ad abbracciare gli ambasciatori: vergarono dunque quel giorno stesso, tra una grappa prealpina e una rakija, l’atto di associazione del paese alla sempre più potente federazione Belberghese. Mercè i nuovi guadagni territoriali, la Confederazione Belberbù, come venne chiamata in ambiente diplomatico, si trovò ad avere uno sbocco al mare (Nero, Nero, Né, per citare Lucio Battisti); con l’ambizione slava e l’efficienza lombarda, nei nuovissimi cantieri navali della Bassa bergamasca si diede presto inizio alla costruzione di possenti scafi per le navi da guerra che avrebbero rapidamente disceso il corso dei fiumi alpini per raggiungere la base loro assegnata a Varna.
La potenza economica, demografica e militare della nuova realtà alpin-balcanica non poteva non intimorire i vicini: tra gli altri, anche il Parlamento ungherese si riunì nella sua bellissima sede in riva al Danubio per discutere della questione. Ma a causa della difficoltà della lingua i deputati non si compresero affatto tra loro, pensarono di udire offese alle rispettive madri e sorelle e la seduta si concluse in rissa tra le colonne di marmo artificiale, poi in vicendevoli spedizioni a cavallo a scopo di razzia. Quando infine fu ristabilita la calma, pervenne al Parlamento –convocato allora sotto tende di feltro nei vastissimi spazi della Puszta, dato l’imprevisto ritorno ai costumi atavici- un dirigente della Honved (HN), il quale propose ai rappresentanti del popolo ungherese di rispondere all’aggressivo vicino celto-slavo instaurando a loro volta una federazione allargata a Herceg Novi* (Montenegro) e all’Honduras. L’idea fu tuttavia giudicata inutile e assurda, nonché lesiva della dignità della nazione magiara e della sua missione storica; cosicché il dirigente fu chiuso in una botte e precipitato dalla collina di Buda, come era accaduto tanti secoli prima a San Gerardo (Szent Gellért). La manifestazione di inaudita barbarie fu trasmessa dalla tv pubblica magiara e ottenne un buon successo di pubblico. Ci fu ad ogni modo un ungherese che trovò il suo guadagno nella vicenda: un lontano discendente di un ramo cadetto della famiglia Hunyadi, facendo presente che il suo eroico prozio aveva salvato Belgrado dai Turchi**, riuscì ad ottenere un provino nell’Albinoleffe, rivelandosi un discreto terzino destro e ottenendo un contratto biennale con opzione sul terzo. Qualche tempo dopo, si presentarono agli allenamenti alcuni punkettoni svizzeri, con l’improbabile pretesto di discendere dai monaci di San Gallo trucidati dagli Ungari nell’Alto Medioevo in una delle loro scorrerie. Poco convinto, ma desideroso di chiudere lì la faccenda, il fluidificante versò loro 22 euro e 50 centesimi in un’unica soluzione.
Peraltro, il potere attrattivo della tripla B continuava a farsi sentire in tutt’Europa: se la sollevazione della Borgogna fu repressa dal governo centrale francese solo con l’invio di notevoli contingenti militari, il primo ministro spagnolo Zapatero fu costretto a recarsi a Burgos e concedere alla città amplissima autonomia fiscale e linguistica (di cui la giunta locale approfittò per introdurre nell’alfabeto castigliano la pernacchia con le ascelle. Dopo la G). L’intesa che salvava l’integrità territoriale dello stato spagnolo fu suggellata da un audace ballo tra Zapatero e il primo cittadino di Burgos, che vollero così imitare la danza di Don Giovanni d’Austria sull’ammiraglia cristiana a Lepanto. Non ci fu invece modo di fermare il sentimento irredentista della nazione belga (BEL, ma va bene uguale), da tempo lacerata da una grave rivalità e diffidenza tra le sue anime vallona e fiamminga, rivalità che fu bensì superata aggregandosi ad una realtà più grande e nobile, quale quella abbozzata tempo prima da un belgradese davanti al suo zabaione. Seguendo l’esempio di Brugge, che per prima aprì le porte della città all’equipaggio della fregata M. Ganz (fu una notte indimenticabile, quella, per il comandante di Sofia e per il suo equipaggio di Dalmine, acclamato e fatto prigioniero da bionde bellezze fiamminghe), anche il resto del Belgio votò a grandissima maggioranza l’ingresso del paese nella Confederazione, divenuta ora Belberbulbè.
Lo sviluppo inarrestabile della nuova entità mise più di una pulce nell’orecchio della diplomazia statunitense. I più alti papaveri del dipartimento di Stato si recarono dal presidente G. W. Bush e spiegarono con inquietudine come il know-how belgradese, il trade management e l’insider power bergamasco, per non parlare delle rose di Stara Zagora e delle birre trappiste belghe, rischiassero di trasformare la potenza imperiale americana in un patetico second line rifler. Bush sorrise, fece finta di aver capito e si infilò un dito a caso in un orecchio. Penetrò troppo forte e si perforò il timpano, ma non smise di sorridere. Mentre i migliori veterinari di Washington D.C. prestavano le cure del caso, Condoleezza Rice in persona allestì un teatrino di marionette, in cui si vedeva un pupazzo dalle fattezze di Glenn Strömberg bastonare a sangue il burattino dello Zio Sam. Bush allora si fece serio e assunse decisioni degne di un capo. La sera stessa il Belize (BZ) fu bombardato, terrorizzando allo stesso modo le popolazioni indie autoctone, quelle di origine africana e i tedeschi mennoniti; il che dimostra una volta per tutte l’unicità della razza umana. Dopo aver ascoltato la notizia alla radio, il sindaco di Bolzano fece due calcoli con le dita dei piedi, poi si travestì da contadino delle valli e attraversò clandestinamente il confine austriaco, sostenendo in seguito di essere nativo di Innsbruck e di aver perduto i documenti rincorrendo il suo maiale Günther. Poiché parlava malissimo il tedesco, i tirolesi non ebbero dubbi e lo considerarono uno dei loro. Il soviet belberbulbelga, dopo i primi momenti di comprensibile timore, prese atto dell’inefficacia della risposta militare americana e si apprestò ad annettere Bisceglie.
A questo punto, dopo il fallimento della prova di forza statunitense, era forse inevitabile che succedesse: la Provincia di Brescia assunse degli ingegneri nucleari indiani, precedentemente impiegati come camerieri nei ristoranti sul Lago di Garda, e diede inizio alla realizzazione dell’Atomica Bresciana (AB). Ma questo accadde molto dopo ed è tutta un’altra storia.

*L’antica Castelnuovo, per gli appassionati di storia veneta.
**Sia pure provvisoriamente.

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18 aprile 2007

Lettere moderne

Si sa che la lontananza produce nostalgia. Io, che come tutti ho dei sentimenti, soffro talvolta per la distanza dagli affetti e dalle amicizie, dal bidè, dalla famiglia e dai miei luoghi. Ma più d’ogni altra cosa mi manca la stampa locale o regionale. Per questo, utilizzando in un ingegnoso piano un fez, degli specchi ustori e un dispaccio della Sublime Porta del 1745, sono riuscito ad intercettare le lettere indirizzate alla redazione de il Resto del Carlino, sì da pubblicarle su questo blog. La commozione mi impedisce di aggiungere altro. Si stampi e non si sprechi ulteriore fiato.

***

Si legge e si vede ovunque che i giovani sono a disagio. Si iniettano la canapa in discoteca al ritmo dannato del loro foxtrot, poi corrono come dei pazzi ritornando a casa dalle loro madri degeneri e, ahimé, si schiantano sulla nostra bella vegetazione rinfoltita a suo tempo dal Duce (che avrà avuto delle colpe, non dirò di no, ma era fior di vivaista). Non hanno presente che di Fangio ce n’è uno solo, tutti gli altri devono seguire la regola aurea della prudenza! Eppure, cari giovani, può essere che debba esser questo il vostro divertimento? Io rammento che ai miei tempi, saranno ormai alcuni lustri, d’accordo, ci voleva ben poco a divertirci: una partita a carte coi nostri vecchi, un ballo sull’aia con le procaci contadinelle, l’omicidio di un avversario politico, una guerra. Mi ricordo che eravamo io, Italo Balbo, Italo Cucci e Re Zogu d’Albania e correvamo nel deserto con i nostri carri coperti. Oppure no, quello era il film con gli indiani che ho visto l’altra sera, poi devo essermi addormentato. Ad ogni modo, cari giovani, pensate a farvi una famiglia, non alla droga e alle cose futili: può essere che non piacciano più a nessuno, con rispetto parlando, le vestaglie delle donne?
Empireo Bonazzi, Codigoro (FE).

Sento tanta gente preoccupata per l’immigrazione eccessiva nel nostro Paese. Io che non ho studiato tanto non posso esprimere pareri profondi: ma voglio raccontare un bell’episodio che mi è capitato al mercato, l’altra mattina. Ero andata ad acquistare un nuovo pestello per il mortaio, avendo rotto quello precedente sulla testa di mio marito Rodomonte. Purtroppo però c’erano tredici bancarelle di sottovesti cinesi e nessuna di casalinghi. Me ne stavo tornando a casa con le pive nel sacco, quando ho notato un abissino che aveva disposti degli oggetti in legno su d’un pled liso. Mi sono avvicinata al coloniale e gli ho chiesto in bell’italiano se avesse tra le sue cianfrusaglie un legno da battuto. Lì per lì non ha capito nulla e si è solo grattato la testa con le sue grosse dita, scure come se avesse appena finito di rubare la cioccolata dal vaso, come fanno i bambini. Gli ho detto che mi serviva a ridurre qualcosa in polvere e ho fatto il gesto del pestello che schiaccia; a quel punto mi è parso quasi che un lampo d’intelligenza balenasse nei suoi vacui occhi bianchi. Adesso sbatto il pepe con un elefante e devo dire che mi trovo molto bene. Basta allora con la diffidenza: anche i negri sono persone umane!
Fricassea Giacomazzi, Sassuolo (MO).

Mi duole notare che anche il vostro giornale si accoda al complotto anti-romagnolo che spinge a nascondere e a minimizzare le glorie della nostra bella terra. Scusate il tono risentito, ma come avete potuto tralasciare di descrivere la bella ed emozionante scena che si è svolta qualche settimana fa a Kinshasa? Alla presenza delle maggiori autorità civili e militari, dell’arcivescovo della capitale, di alcuni stregoni animisti, nonché di una delegazione della città di Lugo e di numerosissimi negri, è stato infatti inaugurato il monumento a M’bumbu Piraccini, discendente del primo piadinaio dell’Africa Nera ed eroe della lotta per l’indipendenza di quella terra, colto nell’atto di lanciare dello squacquerone ai soldati belgi che lo stavano fucilando. Eppure ne hanno parlato i giornali e le riviste di tutto il mondo (cito solo “Kinshasa Soir”, “La Voix des negres”, “La Semaine congolaise” e “Il Corriere Adriatico” ediz. Fermo). Ma verrà il giorno in cui noi romagnoli imiteremo il valore di Piraccini e dei suoi negri a cavallo e ci libereremo dal giogo dell’Emilia…
Elven Sigarini, Ravenna.

Noto con stupore che perfino quelli che erano, in un tempo non lontano, i bastioni de’ benpensanti e della buona borghesia produttiva si lasciano trasportare dai furori progressisti e dal sovversivismo tanto di moda oggi. Ma son forse troppo vago? Vengo repente al punto. Roba da sobbalzare sull’ottomana: non solo le gazzette e gli altri mezzi di comunicazione moderni –frutto dell’ingegno del nostro Marconi- hanno scordato anche quest’anno di celebrare il genetliaco del buon Bava Beccaris, valido difensore dell’idea d’Italia e nume tutelare delle classi migliori della società, ma mi pare, accostando di buon mattino l’orecchio alle mura della scuola elementare contigua alla mia dimora, che non si suoni più la Marcia Reale e non la s’insegni più ai nostri giovani; come succedeva invece a' miei tempi, quando la pena per i recalcitranti –e anche il premio per i troppo solleciti nel canto, ché non si voleva crescere una generazione di invertiti- era una bella passeggiata con le rotule sui legumi più aspri e maledetti. Giro questa richiesta di chiarificazioni al Ministero della Guerra e faccio i complimenti al vostro giornale, benché sia sovente troppo a destra per le mie posizioni moderate.
Taddeo Actis Dato, Cavaliere dell'Ordine Imperiale di Francesco Giuseppe, possessore della Croce di Marianna, Grande Ufficiale dell'Ordine serbo di Takova, Commendatore dell'Ordine pontificio di San Gregorio Magno, Commendatore e Cavaliere dell'Ordine montenegrino di Danilo, Cavaliere di Prima Classe dell'Ordine di Sassonia-Meiningen del Falcone Bianco, o della Vigilanza, Cavaliere dell'Ordine greco del Salvatore, Cavaliere dell'Ordine pontificio di San Silvestro, Cavaliere dell'Ordine gerosolimitano del Santo Sepolcro, decorato dell'Ordine ottomano del Megidiè di III classe, Imola (BO).

La sinistra finalmente ha riconosciuto la sua complicità nelle stragi inferite ai nostri connazionali d’Istria, Quarnero e Dalmazia dalla barbarie slava. E’ un inizio apprezzabile, sia pure; ma con la furberia e l’ipocrisia che sono proprie dei nipotini di Stalin (il tiranno pederasta antisemita pazzo carnivoro e interista), gli esponenti di quella parte politica si trincerano dietro un immorale silenzio per ciò che riguarda tante altre pagine buie della nostra storia. Quando chiederanno scusa, i bravi progressisti, per gli orrori bulgari del 1876? E per il terremoto di Ragusa del 1667? E per il saccheggio di Perasto del 1624? Se ne fregano, ve lo dico io; anzi, si fanno beffe delle vittime, se è vero, com’è vero, che sono arrivati a nominare un ministro turco. Il quale, non c’era altro da aspettarsi, ha subito reso obbligatoria l’ora di narghilé nelle scuole al posto di quella di religione. Ché poi, un ministro turco nel nostro Paese? Ma dov’è finita la sovranità nazionale? Qui ci ride dietro non solo l’Europa intera, ma perfino la Beciuania; e non solo la parte della sua popolazione di origine albionica, ma anche –con rispetto parlando- i negri!
Sigismondo Contuzzi, Casteldurante (Ducato d’Urbino).

Non essendo mai stato cremonese, vivo a Bologna da sempre. Mi ricordo da bambino, io, Balanzone, Bulgarelli e Danilovic andavamo al tempio a bere dal cranio spolpato di Aulo Postumio Albino! Questo per dire quanto sono bolognese. Bene, io un sindaco che si sia accinto a ripulire e rimodernare la città, ripristinandone la vivibilità e ricostruendo un idem sentire della cittadinanza con tale nerbo, energia eppur senso del bello non lo ricordo affatto. E ha anche trattato male i marocchini, i rumeni e gli studenti (terroni). Eppure un giornale storico come il vostro, espressione della bolognesità più vera, ancora storce la bocca. Ma che deve fare un povero sindaco di sinistra per farsi acclamare dalla destra? Siete degli ingrati, ecco cosa siete.
S.C., Bologna.

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13 aprile 2007

Il sogno di un uomo disgustoso

Io sono un uomo disgustoso. Lo sono sempre stato: è la mia naturale disposizione d’animo che mi spinge ad una tale e ributtante condizione. Si trova ogni momento al mondo un uomo di cui ognuno concordemente dice:”E’ un pavido”; o un generoso, o un avaro patologico, o qualsiasi altra caratteristica quest’uomo abbia avuto in sorte. Io sono disgustoso. Uno psicologo o un altro ciarlatano, provvisto, si capisce, d’una bella laurea guadagnata cianciando sul nulla e sul non verificabile, direbbe che lo sviluppo della mia sessualità si è arrestato ad una qualche fase infantile. Ma non è vero. Io ricordo bene di esser stato disgustoso anche da bambino. “Quello è cacca, non toccarlo”, mi gridavano quando ero solo un bimbetto, ciondolante e gattonante in salopette presso le più deliziose bassezze di questo mondo, all’epoca del tutto nuovo. In seguito mi dissero che un’altra serie interminabile di azioni non andavano compiute, perché erano peccato; taluni, invece, ridevano di questi concetti campati in aria, pure mi additavano altre proibizioni giustificandole con l’essere immorali, ingiuste, controproducenti o solo schifose. Mangiavo il succulento grasso che essi lasciavano nel piatto, destinato ad esser gettato; incredibilmente, risultava sempre che ero io il maleducato! In casi simili, stringevo le spalle e me ne andavo, cercando di lasciare dietro di me un lezzo mortale fuoruscito dal mio culo. Ma poi, perché dico mortale? La puzza è vita! La putrefazione orrenda e maleodorante, non è l’ultima ribellione della vita contro il sonno marmoreo e intatto, innaturale, sbagliato? Con l’abitudine, sono quasi giunto ad emettere peti a comando. Mi chiamano “bambino” e anche peggio, talvolta mi agitano i pugni sotto il naso. Io ci sputo su e sorrido. In generale sorrido molto.
Vivo solo. La mia casa è pulita e gradevole, arredata col gusto sobrio ma colorato che mi picco di possedere. Non sta nella trascuratezza o nella pigrizia, che non mi appartengono, la chiave del mio essere disgustoso. Non è una comoda resa, la mia: tutt’altro, è un’affermazione forte e precisa. Mi rendo conto di non poter cambiare il mondo, né ardisco a questo o anche solo a sfidarlo. Però mantengo la mia libertà e continuo a tirare l’acqua ogni sei pisciate. La mattina mi masturbo mentre preparo il caffè e canticchio arie d’opera; che volete farci, mi piace macchiato. Quanto al mio repertorio, ho una preferenza per la Carmen di Bizet, di cui rutto alla perfezione ogni suono nasale (il francese è meravigliosamente adatto ai giochi del diaframma), però non mi fossilizzo. Vado di frequente a teatro, sia agli spettacoli di prosa che all’opera. Mi piace toccare il raso rosso all’inizio delle rappresentazioni e ritrovarlo verde di muco, alla fine. Mi soddisfa. Non credo di essere un vandalo o di mancare di rispetto al bene altrui, tantomeno a ciò che è pubblico: cerco di attaccare solo caccole solide, molto facili da staccare. Gradevoli al tatto, ritengo, per chi avrà il privilegio di nettare le poltrone. Mi figuro assai bene il lavoro di quest’uomo e non la reputo un’attività degradante: sono fermamente convinto che debba sentirsi più sporco e disgustato chi si trova a scrivere discorsi o dichiarazioni pubbliche per qualche uomo politico, o a giustificarne le gesta. Mangio per lo più salsicciotti con senape piccante, accompagnati dalla giusta porzione di verdure fresche, per poi concludere il pranzo con un buon frutto. Quei salsicciotti mi sono particolarmente graditi per ragioni affettive, giacché la mattina successiva li rifaccio uguali, solo foderati di scuro. Sono giunto attraverso prove e verifiche successive alla marca e alla varietà giusta di salsicciotto. Ho fotografato e catalogato le produzioni di escrementi corrispondenti ai diversi insaccati; grazie ad un olfatto allenato e alla disciplina nello studio posso riconoscere all’odore e distinguere con certezza un ciauscolo di Fabriano, poniamo, da un salame duro toscano o da un lungo e saporito salsicciotto di Turingia.
Non ho problemi a trovare delle donne: sono alto e ben fatto, sempre pulito e ben vestito. Le mie letture mi hanno fornito di una buona conversazione, mentre la costante tendenza a non ritenermi troppo importante ed acuto e a non fare delle mie sensazioni un sistema filosofico –questo l’ho capito con gli anni- mi rende particolarmente desiderabile ai loro occhi. Pure, la mattina dopo mi capita di cingere la donna che ha passato la notte con me (io adoro il corpo femminile, coi suoi umori, il suo sangue, la fertilità disgustosa che ci mette al mondo, sporchi come poi, per tutta la vita, ci vergogneremo sempre di esser stati; osservate peraltro come ogni moralizzatore, religioso o no, parta sempre col nascondere e normalizzare il corpo della donna); bene, ella, che se ne stava accoccolata sul mio corpo in maniera del tutto mansueta e sensuale, si riscuote di colpo quando porto un dito ai testicoli, ne traggo un po’ della commistione di sudore, sperma e umori vaginali che si crea in queste circostanze, passando poi il dito sotto il naso ed aspirando con voluttà e vero godimento quell’afrore dolciastro. Può darsi che lei urli (è già successo); certamente mi guarda stupita, quasi sconvolta, con la sincerità stupefatta che aveva la notte mentre mi sussurrava parole ardite. Io la guardo senza espressione. Ho una caccola verde sulla sommità del mio dito indice e la fisso estasiato, quando sento sbattere la porta.
Notate che a questa stessa donna, che ora scende scandalizzata le scale, avrò immancabilmente esposto, nella conversazione di un qualche giorno precedente o perfino della stessa sera che ci ha visto coricarci assieme, una qualche mia abitudine disgustosa: per esempio di come ricerchi con la mano a ventaglio e cerchi di spingere al mio viso il gas pestilenziale prodotto dai miei peti; o di come mi accada talvolta di svegliarmi nelle primissime ore della mattina con un’erezione in atto, allorché mi giro sul torso, afferro con forza le doghe e faccio l’amore con il materasso, per rimettermi a dormire soddisfatto mentre i primi tram sferragliano sui binari.
Essi pensano sempre che io sia un provocatore, che voglia scandalizzare, che ricerchi di costruire un fascino personale giocando sui paradossi. Non è così. Essi sono inabituati alla verità; non la praticano e non la prevedono negli altri. Oh! Sia chiaro che non voglio atteggiarmi ad unico puro in un mondo corrotto; ho ben presente le circostanze e la pochezza obiettiva della mia condizione. Ciononostante, la mia essenza disgustosa è meno ributtante della loro. Essi amano la menzogna perché li esenta da ogni responsabilità. Quello che li allontana da me non è il giudizio sostanziale sulle mie consuetudini: è la coerenza stringente tra le mie parole, le mie finalità, le mie azioni. E’ la mia consequenzialità, di cui non mi vanto, perché mi è connaturata, a far loro paura. La verità li denuda e li scopre brutti come vermi, brutti come le mie azioni disgustose. Rifuggono da esse, rifuggono da me, giacché in quella bassezza si specchierebbero. Ma di chi è la colpa di quella bassezza? Non lo so. Non trovo risposta a questa domanda. Essi soffrono a causa della menzogna, dunque non può trattarsi di una loro scelta, perché nessuno sceglie consciamente la sofferenza.
Ieri notte mi sono addormentato mentre facevo questo genere di considerazioni. E’ anzi possibile che fossi ancora assorto in esse quando sono stato preso dal sonno, il quale si è limitato a tradurre e trasfigurare alla sua maniera i pensieri che si affollavano nel mio capo. Ho sognato una donna: il suo viso non mi era familiare, né ricordo la sua voce, ma so che dal primo istante in cui è apparsa ho avuto la certezza di amarla. Si trattava di una di quelle sicurezze granitiche che si hanno in sogno, poco o nulla intaccate dalla coscienza della loro transitorietà; ma era anche un qualcosa di ben più profondo, perché quella donna mai esistita era la mia compagna necessaria –e solo Dio sa quanto bramata, quante volte immaginata e desiderata! O credete che un uomo disgustoso sia per questo privo di sentimenti? Non è così, non è così! Il sangue mestruale di quella donna sul mio dito era la nostra comunione d’amore; ed ella comprendeva e sorrideva, senza imbarazzi. Era una donna disgustosa, perciò era la mia donna e l’amavo con tutta la mia anima. Il tempo del sogno era rarefatto, infinito e spezzato assieme. So che ella metteva al mondo dei figli, che educavamo con amore, calore e vicinanza, cercando di indicare loro i valori e le utopie per i quali vale la pena vivere, più che inculcarli a forza. Eravamo felici. Ben presto però i nostri figli, educati e cresciuti nella sincerità e nell’amore, muovevano i primi passi nel mondo. Essi, che erano disgustosi come i propri genitori, non erano pronti e preparati all’impatto con lo scherno, con il disprezzo. Lindi com’erano nell’anima, non erano in grado di difendersi: soffrirono, soffrirono come ho sofferto io alla loro età. Scoprirono la maledetta vergogna della naturalità, o per meglio dire questa perversione venne loro suggerita dalla società.
Il passo successivo fu la menzogna. Essi soffrivano e iniziarono a mentire per avere uno schermo contro la sofferenza. Nondimeno la loro essenza buona e generosa non cambiò. Essi ci mentirono: pure non lo fecero per rancore contro la nostra educazione e la nostra stessa disposizione che li sottoponeva alla malignità che li circondava, ma solo per proteggersi. Mentivano a noi, i loro genitori, come agli uomini del mondo circostante con cui avevano a che fare: principalmente i ragazzi, già traviati, con cui volevano stare in pace, o gli educatori che sono insieme causa e testimonianza di tanti errori. Ma non potevano sapere che la menzogna è uno scudo dai bordi affilati: e si ferirono, si confusero, mentre il filo delle loro bugie andava confondendosi ed aggrovigliandosi. La loro complicata sofferenza si insinuò nella nostra stessa casa, dove aveva regnato la serenità. Ciò che era sempre stato gesto d’amore e di naturalezza divenne d’improvviso forzatura. Ci scoprimmo addirittura vergognosi gli uni degli altri e iniziammo a chiudere la porta quando ci recavamo al gabinetto.
La nostra merda cominciava a puzzare a noi stessi.
Mi sono svegliato di colpo e di colpo ho capito: la menzogna nasce con la società. Un uomo può essere perfettamente coerente, onesto e sincero, ma sarà solo. Per vivere assieme occorre invece mentire; e la menzogna, nata per nascondersi dalla sofferenza, non fa che nutrirsi delle lacrime degli uomini, creando di continuo nuova sofferenza. Ma allora perché questo? Perché ognuno ha vergogna della propria realtà. Tali e tanti sono i pregiudizi e le insensatezze in cui viviamo, che è in effetti impossibile che qualcuno sia esente da colpe e privo di macchie agli occhi degli altri. E in realtà chi lo è sarà il più invidiato, il più calunniato, sovente il più sofferente. Abolire la vergogna, cancellare ogni convenzione, è la maniera in cui si renderà possibile il cambiamento vero dell’umanità.
A questo punto io stesso ho avvertito vergogna: io, che ho rinunciato alla società per difendere la mia coerenza e non condivido con nessuno la mia serenità. Come se l’egoismo non fosse esso pure menzogna; come se la solitudine non fosse essa pure sofferenza. Ebbene, mi mischierò a loro! Che tutti divengano disgustosi, questa sarà la mia missione. Rideranno? Ridano pure di me, purché comprendano: se ognuno è disgustoso, nessuno è disgustoso e non c’è motivo di provare vergogna. E se non esiste vergogna, per cosa mai soffriranno gli uomini?
Dite, credete che rideranno? Ridano, ridano pure: purché comprendano! Io vado!

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09 aprile 2007

Memorie da sopra il suolo


Mi suda il cuore e fremono le tempie. Ho le costole bagnate, sento con certezza che lo sono, e lo sterno, al suo interno, è madido di sudore freddo. Sono salito alla fortezza veneziana, stamattina*. Posso affermare recisamente che chiamarla fortezza non rende affatto l’idea: si tratta invece di una lunga, per la verità quasi infinita, teoria di terrazzamenti e muraglioni, ognuno dei quali vigila e domina il sottostante; e tutti assieme questi vermi di pietra antica si inerpicano per la montagna, fino a metterle le briglie alla notevole altezza alla quale sventola la bandiera con l’aquila. Ma sto perdendo di vista l’oggetto del racconto: fatto sta che ad una delle svolte delle mura mi sono trovato di fronte un bastione secondario, raggiungibile attraverso una stretta lingua murata, su una scarpata d’altronde piuttosto bassa. Ho deciso allora di abbandonare momentaneamente il serpente, che del resto continuava placido a salire anche senza di me, per andare a gustare il panorama da quel torrione. Con la tranquillità che mi dà un’infanzia passata in collina e avvezza ai sentieri petrosi, mi sono lasciato indietro i gradini sconnessi e i grossi fiori gialli di cui ignoro il nome e sono giunto alla meta della mia deviazione. Non si vedeva nulla di che, in effetti. Solo una ragazza seduta ed assorta in una delle grandi feritoie da cui si poteva cannoneggiare il folle dai piedi di capra che avesse deciso di scendere dal fianco del monte per assalire la città, laggiù in fondo. Perciò, deluso, ho deciso di scendere ancora e ho infilato le scale, pressoché distrutte, che portano alla base del possente torrione. Mentre camminavo con attenzione ma senza patemi mi sono reso conto con terrore dell’altezza di quel bastione e del fatto che sorgeva quasi a picco su uno sperone di roccia, non sui consueti terrazzamenti. Ho pensato che solo uno stupido molto tranquillo come me poteva arrivare quasi ad appoggiarsi al minuscolo parapetto –malridotto e d’altronde già destinato in origine a ricoverare uomini piuttosto bassi- e non accorgersi di nulla, se non dopo. Rimproverandomi ed imprecando, ho pensato di scendere ancora, così da ricollegarmi al serpentone ad un’altezza minore, presso uno dei tornanti che avevo già percorso. Mentre mi tranquillizzavo in questo modo, mi sono accorto che in realtà la deviazione mi aveva condotto troppo lateralmente: nessun sentiero univa il bastione e le mura adiacenti alla strada per la sommità. Solo gli scalini che avevo già disceso potevamo riportarmi alla via. Ed intanto ero sceso ancora di una rampa, fino ad un prato sommamente selvatico ed abbandonato. Qui, come descritto sopra, le tempie hanno cominciato a pulsare e il cuore si è bagnato, mentre la bocca si seccava. Mi sono girato e sono tornato indietro, perché non c’era altro da fare. Ho camminato con mani e piedi per due rampe di scale, per ridurmi ad un’altezza tale da consentire al parapetto di servire a qualcosa. Sentivo, sebbene non abbia avuto il coraggio o l’incoscienza di accertarmene, che di lato e sotto c’era lo strapiombo.
Considerate che io non soffro di vertigini. A Parigi, sono tranquillamente salito all’ultimo piano della Torre Eiffel, esperienza che ritengo sia preclusa a chi ha il terrore dell’altezza. Però mi è successo piuttosto di recente, con mia sorpresa e con vero sgomento, di avere degli attacchi di questo male subdolo. Da allora soffro del terrore di essere colto dalla vertigine, che è peggio della certezza di averla. Ho le prevertigini selettive, direi; e più di tutti le ho quando sento che dovrei averle e che dovrei aver paura di averle. Oltretutto si tratta di un disturbo a suo modo affascinante; perlomeno, nei due casi in cui sono stato colpito da esso, mi è balenata questa considerazione. C’è un piacere insano, ma non per questo meno voluttuoso e quasi sensuale, nel forzare la propria natura avvicinandosi all’abisso che si teme con tutte le forze. Il corpo, che è saggio ed ovviamente spinto ad autoconservarsi, non vuole alcun movimento che non sia quello di allontanarsi dal baratro e fuggire, fuggire, fuggire verso terra; ma la coscienza e l’intelletto possono comunque violentare le membra e costringerle ad avvicinarsi, ad afferrare il parapetto o la ringhiera con movimenti goffi e inconsulti, a guardare di sotto. Credo che qui stia gran parte dell’imperfezione e del dramma della condizione umana: nella superiorità che ha il pensiero, anche quando è stupido e dannoso, sull’azione. Un uomo che fosse più animale vivrebbe nel mondo in maniera definitivamente più sensata e felice. Ma eravamo rimasti al mio cuore sudato e al torrione risalito. Qui ho avuto bisogno di qualche istante per riguadagnare calma e coordinazione, ragion per cui mi sono anch’io accartocciato in un’ampia feritoia. Intanto la mente andava, libera.
Siccome sono uso riciclare i pensieri –e, data la situazione, questa volta posso perfino venir scusato- mi è sovvenuta la prima volta che ho avuto le vertigini (i pensieri migliori li utilizzo una tale infinità di volte che finiscono per essere tondi e bianchi come sassi di fiume, perfettamente levigati, senza asperità sconosciute. Eppure funzionano ancora, come le falci dei nostri mezzadri di un tempo, usate e riaffilate così tante volte che sembra non ci sia più il metallo: si direbbe che sia rimasto solo il filo, ma esse continuano a tagliare): successe a Pisa, un anno e mezzo fa. Ero là in compagnia, e ricordo anzi che fui io a fare pressione sulla mia donna affinché salissimo sulla torre, che avevo visto solo da bambino e che avevo del tutto dimenticato.
La Torre di Pisa è tutto sommato bassa. Il panorama che si gode da essa è deludente: si domina per la verità l’Arena Garibaldi ed è probabile che si potrebbe guardare la partita in maniera sufficientemente chiara; ma in primo luogo nessuno sale su uno dei capolavori dell’arte mondiale per mettersi ad osservare Pisa-Sassuolo, secondariamente le visite durano solo un’ora, non l’ora e tre quarti più recupero che sarebbe necessaria, il che taglia la testa al toro. Mentre ero impegnato in queste profonde considerazioni mi accorsi che il corpo era attratto dal vuoto sottostante. Contemporaneamente, esso mi diceva di allontanarmi e di scappare. La novità di quelle sensazioni contrastanti, che lì per lì attribuii alla pendenza**, mi fecero tremare le gambe e mi atterrirono. Sono rimasto bloccato circa un quarto d’ora, tenendo la ringhiera ben stretta con la mano, all’estremità del mio braccio teso. Per fortuna ho le braccia lunghe. F. non si accorse di nulla, almeno sulle prime, perché io –per machismo? per pura stupidità? non saprei- affettavo disinvoltura, provando anche a girare per la circonferenza della torre, fingendo di essere interessato agli orrendi dintorni di Pisa.
Poi ha capito, mi ha sorriso e mi ha preso per mano.
Quando la visita è terminata mi è dispiaciuto dover scendere e mettermi al sicuro, staccandomi da quel parapetto, dopo interminabili minuti in cui davvero ho temuto di poter diventare materia per un’improvvisata ed inaspettata autopsia a diletto dei musi gialli sottostanti. Mi ero affezionato a quella paura e a quel malessere: ho percepito distintamente l’attrazione che mi legava al timore. Perché le vertigini sono così, non si tratta di un male che si detesta e si desidera semplicemente scompaia. Tutta un’altra cosa: è un dolore cui si dura fatica a rinunciare, come quando sai che devi lasciare una donna –o che lei deve lasciarti, non fa differenza- e hai ancora desiderio di baciarla. E continui effettivamente a baciarla, benché ogni bacio si conficchi in petto; e dolga, dolga dannatamente.
Ma forse questa similitudine non è per nulla pertinente, invece. Devo lavorare sui paragoni, o non imparerò mai a scrivere decentemente.

*Che è un’altra mattina rispetto a quella del giorno in cui questa roba verrà pubblicata; ad essere onesti, questo caso –del tutto veritiero- non risale neanche allo stesso giorno in cui mi sono messo alla tastiera a descriverlo. Ma non rompete i coglioni, per una volta fate conto che io sia uno scrittore serio e tacete.
**Giacché, pensate un po’ che stranezza, a Pisa c’è una torre che pende. Se vi capita di passare per quella città, visitatela: è una cosa bianca in un posto verde.

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06 aprile 2007

Come si campa il mondo, prva lekcija: pulirsi il culo all’estero

Ha inizio con oggi una nuova rubrica all’interno di questo spazio brullo e poco frequentato: infatti, abbiamo (ho) deciso di cedere la parola ad un’autorevole voce della società civile, il barone e langravio Taddeo Actis Dato. Egli è l’ultimo rampollo, peraltro ormai maturo (è stato commilitone del Douhet al tempo d’oro dell’aviazione patria), di una eminente famiglia di proprietari terrieri, cavalieri di Malta ed usurai. Nel tempo che gli resta libero dalle sue nobili attività, quali il passaggio delle acque a Baden Baden e la caccia grossa all’Ottentotto*, collaborerà da par suo a questo lurido e morente blog.

***

Ringrazio il soprastante bolscevico per la possibilità che mi si concede: educare la gioventù –sì, quella massa d’invertiti fasciati di rosa e di pulzelle acconciate come le donne di malaffare ne’ bordelli per militi turchi durante la I Guerra Balcanica- al bello e al buono. La prima lezione verterà su quel delicato tesoro che ognuno di noi nasconde nei calzoni (benché vi siano di molti ragazzi, al tempo presente, che non lo nascondono per null’affatto e anzi lo mostrano ad ogni pie’ sospinto, per effetto de’ loro calzoni alla moda tartara): il culo umano. Per l’esattezza si tratterà del modo di tenerlo lindo e gioioso anche quando si abbandona l’ombra maestosa delle Alpi e si approda in posti in cui l’instituto preclaro del bidè** è bellamente misconosciuto. E’ vero che voialtri, con quelle facce che vi ritrovate, verreste certamente bloccati alla frontiera da’ gendarmi e messi al remo quali spahi catturati dagli aiducchi al servizio del Serenissimo Governo Veneto; ma insomma, poniamo il caso che vi riesca di espatriare e veniamo al nocciolo della questione.
Si presume che voi tutti, un paio d’ore dopo aver desinato, vi rechiate alla ritirata e facciate la cacca. Nel Belpaese, si tratta zweifelsohne d’una benedizione divina: ci si reca al gabinetto con un libro di A. Baricco, si tira fuori dal mobiletto della toeletta un bel volume di Teodoro Dostoevskij, si evacua in serenità, nel mentre si rafforza la propria preparazione culturale colla lettura del maestro sarmatico; poi si utilizzano un paio di pagine del suddetto Bricco per pulirsi sommariamente, prima di consacrare il deretano al ss.mo bidè, il quale ci netterà definitivamente dalle scorie del pranzo e ci regalerà la giuocosa sensazione di freschezza che tutti gli italiani –e le italiane- conoscono. Questa sensazione è oscura e ignota a’ stranieri. Ignorando il bene, essi non vedono però il male: e si aggirano per le loro città rozzamente edificate con l’ottusa serenità degli animali delle selve e delle steppe, o dei cinesi. Ma un italico cuore, può esso tollerare la sporcizia di culo senza languire e deperire? No, no, no. Mille volte no! Anche perché presso i barbari è d’uso placare la sete con boccali colmi di spumosa cervogia: e noi tutti sappiamo a quali vette di dolore e picchi di abiezione –quali grattarsi furiosamente durante un ricevimento all’ambasciata siamese, poco prima di dare la mano al giallo diplomatico ed alla sua graziosa consorte dai neri capelli serici- può recare la perniciosa combinazione birra-culo sudicio. Pertanto, si dovrà in qualche maniera emulare l’eburneo bidè che si dové giuocoforza lasciare nella Penisola. Ma come, diranno i miei ingenui & intimoriti lettori? Se mi fate parlare, teste di cazzo: prima di tutto si cacherà. Poi, e solo poi***, si prenderà la carta igienica e si comincerà con metodo ed energia a far pulito il proprio deretano. La quantità di carta da utilizzare a tal bisogna è, stando ai contributi forniti sul tema dai migliori e più eruditi ingegni****, tre volte superiore a quella che in egual circostanza viene consumata in Italia. Ma non basta certo questa minima contromisura: a questo punto si dovranno piegare l’uno sull’altro cinque fogli di papiro intimo. Bagnati con delicatezza, sì da non stracciarli, ché la carta nel folto della foresta pluviale di peli di culo rappresenta essa pure un bel problema, essi serviranno a sciogliere e portar via gli assembramenti di escrementi che si affollano dinanzi all’uscita come gli sfaccendati nelle nostre vie, quando fingono di esser stati licenziati e di aver magari famiglie numerose da mantenere. L’operazione va ripetuta due volte. Finalmente sarete passabilmente freschi e senza tema di ritorni di fiamma, è proprio il caso di avvalersi di quest’espressione, durante la giornata. Tutto finito? No, neanche per il cazzo. A questo punto ci si solleva sul lavandino e si apre l’acqua. Non foss’altro per dimostrare a tutti i popoli a quale splendore di pensiero e d’azione è giunta la civiltà di Roma: come le cascate delle Marmore dalle altezze sublimi del Ternano si gettano attraverso il Nera ad abbeverare la Città Eterna e ad alimentarne la grandezza, così da quell’acqua scrosciante, fluente nelle gole più recondite del vostro corpo, giungerà a voi la conferma di quanto sia santa e superiore la nostra bella Italia, con le sue Madonne ricoperte d’oro, i suoi Santi cialtroni dalle stimmate allo iodio, le sue mafie organizzate. Quanta nostalgia.

*Più correttamente detto Khoisan. Non fate i soliti pezzenti ignoranti e rottinculo e imparate la terminologia precisa.
**Talora s’incontra la grafia bidet, presso gli anfibiofagi e loro estimatori; ma non occorre neanche dire che solo nel momento in cui cominceranno ad utilizzarlo, i nostri vicini d’Oltralpe avranno il diritto di storpiarne il nome. Fino ad allora, avranno culo e coscienza egualmente sporchi (n.d.AD).
***Ponete attenzione a non avvicinare la carta mentre ancora cadono dalle grotte rettali residui imbruniti del pasto: stiamo imparando come ci si pulisce, non come si preparano i supplì (n.d.AD).
****Si segnala il fondamentale libello di W. T. HINAUSLEHNEN, Keine Angst: kacke mal!, Schweinfurt 1954, nonché l’opera di Monsignor O. RELLO-LINDO, Antiquità intime de’ dalmati, 6 voll., Sebenico 1899 (n.d.AD).

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