01 febbraio 2007

Universi paralleli

C'erano una volta due ragazzi. Anzi, all'inizio c'era solo un ragazzo, la ragazza arriva poi. All'inizio della storia lei era solo l'amica di un'amica; agli occhi del ragazzo, si trattava perciò di un personaggio appena abbozzato, come i soldati delle ultime file nella Battaglia di San Romano. Poi un giorno capitò che i due vennero presentati; parlando di tutto con la leggerezza che possono avere soltanto due che un attimo prima erano estranei, scoprirono di condividere delle passioni e soprattutto degli odi. E non c'è nulla che avvicini come una comune idiosincrasia, non c'è bisogno di aver studiato la storia dei Balcani per saperlo.
Nella testa del ragazzo c'era una rotellina ferma da parecchio tempo. Quel giorno la rotellina si rimise a girare pian piano, fino a trasmettere il movimento alla ghiera più grande, che rotò con gran clangore, dopo tanta inattività. Questo successe un giorno in cui i due si incontrarono di nuovo. Forse un po' si piacquero, perché furono felici di vedersi, si scambiarono i numeri di telefono, si allontanarono l'uno dall'altra con una certa riluttanza. Il giorno dopo il ragazzo la chiamò, inatteso, domandandole un incontro quella sera stessa. Lei aveva già un impegno, per cui declinò l'offerta. In quella settimana d'inverno, un inverno strano e latitante, il ragazzo la pensò spessissimo. Dovettero passare giorni, ma giorni lunghi lunghi e pieni di timori, prima che i due potessero di nuovo reincontrarsi nella stessa città, che li aveva visti insieme la prima volta (anzi, si può dire che quella città fosse il loro spazio, l'unico che condividessero). Un freddo messaggio al cellulare fu la maniera che lui scelse per sapere: sapere se le impressioni e i sentimenti che sentiva lui erano uguali e forti anche in lei.
La risposta fu un altro messaggio, stavolta caldissimo: sì, anche lei voleva vedere cosa sarebbe successo a quei sentimenti appena nati, come sarebbero cresciuti, se -beninteso- si fossero rivelati in grado di reggere le prime e ultime gelate dell'inverno morente. La prima volta che si parlarono non più da ex estranei, ma da futuri intimi, sedevano sull'erba. Erano nervosi e circospetti, come un tale che ha un soprammobile di cristallo in mano e ha il terrore di farlo cadere. D'altra parte il cristallo non cadde e non si ruppe. Si baciarono in piedi, un pomeriggio; il sole questa volta li aveva aspettati, e quando le labbra si toccarono qualche raggio vagava nell'aria celeste, non ancora blu.
Lui stette lontano un periodo; per tutto il tempo della separazione i meccanismi nascosti, ormai perfettamente oliati, continuarono a muoversi e a riscaldare il suo petto. Quando furono di nuovo assieme, lei gli diede un bacio grande e risentito per ogni giorno che era mancato. Lui abbassò lo sguardo e la prese per mano. Da quel giorno le loro dita non hanno mai più rinunciato a quella stretta. Il ragazzo e la ragazza, che un tempo erano stati estranei, ora non hanno neanche bisogno di incrociare gli sguardi a vicenda, perché sanno di guardare sempre nella stessa direzione.

Questo accade in un'altra realtà, che solo alcuni dettagli secondari differenziano dalla nostra. Nella nostra, la risposta al messaggio freddo gelò il cellulare grigio e rallentò i denti delle rotelle, giù nello sterno secco di quel tipo, e il loro metodico movimento. Il ragazzo arrotolò la sciarpa intorno al collo bianco e tornò a casa. Ci volle molto perché ciò accadesse, ma un giorno quei massicci cerchi rugginosi si fermarono del tutto.

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