24 novembre 2006

E mai con timore

Ero lì che riedevo, fischiando, alla mia parca mensa, quando fui attratto da un rumore metallico. In strada non c'era quasi nessuno, e sembrava che nessuno oltre me avesse sentito quel suono. Tuttavia non volli tirare avanti; mi diressi invece verso il vicolo da cui sembrava provenire il rumore. Non mi ero sbagliato: nel mezzo del vicoletto buio e sporco stava un grosso marchingegno di metallo, che sul momento non seppi identificare. Mentre mi avvicinavo per esaminare bene quel misterioso oggetto, l'oscurità partorì un vecchietto. Me lo trovai dinanzi all'improvviso: un vecchino assai distinto, con un sorriso ironico, occhi e capelli chiari, entrambi grigi e quasi bianchi. La vecchia maglia dell'Avellino che indossava non mi impedì di riconoscere in lui Jorge Luis Borges.
"Maestro!", urlai quasi. Da quando era morto nel 1986 avevo pressoché rinunciato ad incontrarlo. "Maestro", ripetei ebete, "che fa qui? Al cimitero di Ginevra la staranno cercando".
"Le cazzate stanno a zero", fece lui, in tono deciso. "Dammi una mano con questa macchina, piuttosto".
"Che roba è?".
"E' una macchina del tempo. L'ho costruita nei sotterranei della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, quando giocava il River della Maquina e nessuno veniva da noi. Funziona a pedali e antichi versi sassoni".
"E io a che servo?".
"Filosoficamente, è una bella domanda. In questa sede, tu pedali. Conosci forse Caedmon, il primo poeta sacro della storia inglese?".
"...No".
"E allora pedali".
"E dove andiamo di bello, Maestro?".
"Intanto io non sono il tuo maestro, altrimenti qualcosa avresti imparato. Zweitens, andiamo a Stoccolma, nel 1982. Piantiamo un casino durante la cerimonia di consegna dei Nobel e spacchiamo la faccia a quel finocchio colombiano. Poi scriviamo sul muro dell'Accademia Svedese a Gabriel Garcia Marquez gli pizzicano le orecchie, in sanscrito, norreno e lineare B".
"La maglia dell'Avellino fa parte del rito della sfida al normale scorrere del tempo, vero, Maestro? O è un prendere atto in maniera ironica della modernità e del suo nuovo, scristianizzato concetto del sacro?".
"No, imbecille. E' che mi piace come mi sta il verde".
"In effetti la ringiovanisce di almeno quindici anni. Anzi, io credo che si potrebbe lasciare la macchina del tempo qui, che tanto domani non è giorno di mercato e non c'è la rimozione forzata, e andare a farci un saltino in un locale che conosco. Suona Alpha Blondy, secondo me uno con questa mise non passa inosservato".
"E a Stoccolma 1982 quando ci andiamo?".
"Ci andiamo domani, Vorrà dire che pedalerò un po' più forte".
Borges ci rifletté un po' su, poi si convinse.
"Tanto il finocchio rimarrà finocchio anche domani. Il tempo è un eterno rifluire, e non si possono cancellare le tracce di ciò che indiscutibilmente è".
"Credo anch'io".
"E dimmi, se ne trovano di donne di fisionomia camitica? Quelle belle paperotte, che sporgono dal davanzale e dal bauletto".
"Può essere, Maestro. E presumo che lei non avrà difficoltà ad attaccare discorso".
"No, neanch'io credo che mi sarà arduo. Da quando quel sardo del cazzo è salito al potere in Argentina, la mia timidezza ho dovuto superarla. E giusto qualche giorno fa ho riletto Maran, credo che tre birre medie e un discorso d'ampio respiro sulla negritudine potrebbero aiutarmi. Ah, passami due cartine".
Entrammo nel locale. Da quel poco che ricordo dell'interno, credo che Borges sia stato un po' troppo di frequente al bancone. Non lo so di preciso, però. So solo che quando mi sono ritrovato nella macchina del tempo, avevo un gran mal di testa. L'uomo dagli occhi trasparenti fischiettava un motivetto d'inizio secolo, tutto soddisfatto.

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