28 novembre 2006

L'esercito del surf in Brianza

Come probabilmente non vi sarà sfuggito se avete una radio, una televisione, un accesso ad Internet, degli amici o anche dei perfetti sconosciuti lieti di comunicare al bar la loro opinione sui fatti del mondo sorseggiando un caffè corretto Varnelli, il capo dei giovani italiani, Silvio Berlusconi, domenica a Montecatini ha avuto un leggero malore. Niente di che: Silvio sta benissimo e andrà avanti ancora a lungo con la sua battaglia contro il comunismo e la sobrietà, fino a che non ci sarà l'ultimo scontro tra liberaldemocratici a colpi di affilati spadoni a due mani delle Highlands e ne rimarrà soltanto uno. I soliti sospettosi hanno anzi voluto vedere nella sua permanenza in ospedale solo un modo per catalizzare l'attenzione, anche in vista della manifestazioe di sabato contro il governo Prodi, che rischiava di rivelarsi un mezzo fallimento; se non altro per via della rinuncia a partecipare espressa dai dirigenti dell'UDC, i quali hanno deciso di esprimere la loro avversione al governo delle tasse e delle falsità con un giorno di astensione da ogni raccomandazione e pratica clientelare: la provincia di Isernia riaprirà comunque lunedì mattina con le normali modalità. Ma non è di questo che volevo parlare. Il punto che mi piace affrontare è un altro: il fatto che il miglior rappresentante del sentimento di gioventù e ribellione indistinta espresso negli ultimi anni dalla società italiana sia in realtà un settantenne, soggetto necessariamente agli acciacchi dell'età. Senza citare i tratti fisici tipici dell'anziano, quali le orecchie spropositate e l'altezza che risente delle privazioni della guerra e della miseria degli anni successivi. Sia chiaro che qui non si fa dell'antiberlusconismo: se cercate critiche al Presidente avete sbagliato blog. Anzi, uno dei sogni della mia vita è andare a cena con Berlusconi: scherza, ride, racconta barzellette, è parlatore affabile e molto attento all'interlocutore, tocca il culo alle cameriere e probabilmente ha sempre due grammi di skunk nei calzetti. Anche se da qui a fargli governare un grande Paese dell'Europa Occidentale ce ne passa, e difatti ho votato per l'Unione. La grande e preoccupante verità che volevo raggiungere è più sociologica. L'ha ben ruminata di recente Romano Prodi con la sua leggera cadenscia emiliana: siamo un Paese impazzito. Come definire altrimenti un luogo in cui l'archetipo della gioventù si rompe un menisco facendo ginnastica, i giovani uomini più alla moda indossano spesso e volentieri magliette rosa e Teo Mammuccari ha un posto di lavoro? A me non vengono altre definizioni.

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24 novembre 2006

Messaggio autopromozionale

Stanchi dei soliti blog? Non ne potete più di adolescenti brufolosi che annunciano su My Space, ogni tre quarti d'ora, suicidi che mai metteranno in pratica (purtroppo)? Vi siete stancati anche del buon gusto, del rispetto per la lingua italiana, dell'originalità e di tutto quello che propongono in giro per la rete? Restate qui, allora, perché questo è un posto tutto diverso.
Prossimamente su questo blog, in esclusiva mondiale:

Chi ha rubato i gioielli della Regina?, ovvero un caso per l'ispettore Fogna.
La guida di Joseph Goebbels alla Bundesliga.
Una storia erotica con Peter Crouch.
Vacanze intelligenti in posti deprimenti: la provincia di Macerata in pedalò.
Delfini assassini ed altre novelle per ragazzi.
Come prendere d'assalto Norimberga: una guida ai punti deboli delle fortificazioni cittadine.
Melissa P incontra il Norwich City.

E non finisce qui... Ci saranno anche:
Servizi utili per gli stranieri: il Gattusometro vi impara l'italiano (a gratis!).
Bon ton: come sbucciare la frutta bestemmiando poco o niente.
Trekking e guerra civile: il Caucaso messo a nudo.
Musica: dai ghetti di Castelfidardo, il ritorno delle fisaromoniche distorte.
Letteratura; ampi brani dal prossimo romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
Sì, viaggiare: il Tagikistan, un itinerario affascinante e quasi privo di agguati alla vostra persona.
Archeologia: Lucy e vostra madre. Analogie ed eventuali differenze.
Sesso e amore: le posizioni migliori per guardare la Champions mentre fate l'amore con lei.
Vita coniugale: la principessa Olivera e il suo caro Bayazid.
Test: siete negri?

E tanto, tanto altro (in realtà: sarà già molto se scriverò il 10% di queste cazzate). Il tutto solo e soltanto qui, realizzato artigianalmente e rispettando l'ambiente, senza che voi sborsiate una lira (che è una lira).

Gattusometro.blogspot.com: l'unico blog che resiste all'invasione cinese.

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E mai con timore

Ero lì che riedevo, fischiando, alla mia parca mensa, quando fui attratto da un rumore metallico. In strada non c'era quasi nessuno, e sembrava che nessuno oltre me avesse sentito quel suono. Tuttavia non volli tirare avanti; mi diressi invece verso il vicolo da cui sembrava provenire il rumore. Non mi ero sbagliato: nel mezzo del vicoletto buio e sporco stava un grosso marchingegno di metallo, che sul momento non seppi identificare. Mentre mi avvicinavo per esaminare bene quel misterioso oggetto, l'oscurità partorì un vecchietto. Me lo trovai dinanzi all'improvviso: un vecchino assai distinto, con un sorriso ironico, occhi e capelli chiari, entrambi grigi e quasi bianchi. La vecchia maglia dell'Avellino che indossava non mi impedì di riconoscere in lui Jorge Luis Borges.
"Maestro!", urlai quasi. Da quando era morto nel 1986 avevo pressoché rinunciato ad incontrarlo. "Maestro", ripetei ebete, "che fa qui? Al cimitero di Ginevra la staranno cercando".
"Le cazzate stanno a zero", fece lui, in tono deciso. "Dammi una mano con questa macchina, piuttosto".
"Che roba è?".
"E' una macchina del tempo. L'ho costruita nei sotterranei della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, quando giocava il River della Maquina e nessuno veniva da noi. Funziona a pedali e antichi versi sassoni".
"E io a che servo?".
"Filosoficamente, è una bella domanda. In questa sede, tu pedali. Conosci forse Caedmon, il primo poeta sacro della storia inglese?".
"...No".
"E allora pedali".
"E dove andiamo di bello, Maestro?".
"Intanto io non sono il tuo maestro, altrimenti qualcosa avresti imparato. Zweitens, andiamo a Stoccolma, nel 1982. Piantiamo un casino durante la cerimonia di consegna dei Nobel e spacchiamo la faccia a quel finocchio colombiano. Poi scriviamo sul muro dell'Accademia Svedese a Gabriel Garcia Marquez gli pizzicano le orecchie, in sanscrito, norreno e lineare B".
"La maglia dell'Avellino fa parte del rito della sfida al normale scorrere del tempo, vero, Maestro? O è un prendere atto in maniera ironica della modernità e del suo nuovo, scristianizzato concetto del sacro?".
"No, imbecille. E' che mi piace come mi sta il verde".
"In effetti la ringiovanisce di almeno quindici anni. Anzi, io credo che si potrebbe lasciare la macchina del tempo qui, che tanto domani non è giorno di mercato e non c'è la rimozione forzata, e andare a farci un saltino in un locale che conosco. Suona Alpha Blondy, secondo me uno con questa mise non passa inosservato".
"E a Stoccolma 1982 quando ci andiamo?".
"Ci andiamo domani, Vorrà dire che pedalerò un po' più forte".
Borges ci rifletté un po' su, poi si convinse.
"Tanto il finocchio rimarrà finocchio anche domani. Il tempo è un eterno rifluire, e non si possono cancellare le tracce di ciò che indiscutibilmente è".
"Credo anch'io".
"E dimmi, se ne trovano di donne di fisionomia camitica? Quelle belle paperotte, che sporgono dal davanzale e dal bauletto".
"Può essere, Maestro. E presumo che lei non avrà difficoltà ad attaccare discorso".
"No, neanch'io credo che mi sarà arduo. Da quando quel sardo del cazzo è salito al potere in Argentina, la mia timidezza ho dovuto superarla. E giusto qualche giorno fa ho riletto Maran, credo che tre birre medie e un discorso d'ampio respiro sulla negritudine potrebbero aiutarmi. Ah, passami due cartine".
Entrammo nel locale. Da quel poco che ricordo dell'interno, credo che Borges sia stato un po' troppo di frequente al bancone. Non lo so di preciso, però. So solo che quando mi sono ritrovato nella macchina del tempo, avevo un gran mal di testa. L'uomo dagli occhi trasparenti fischiettava un motivetto d'inizio secolo, tutto soddisfatto.

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20 novembre 2006

Limiti del ricordo

Io, prima di essere io, fui un oleandro sull'A14, finiti i viadotti, quando vedi le case bianche e il mare, è tutto piatto e le cicale già rompono i coglioni. Mi venne addosso una Fiat 1100. Guidava uno che ne aveva costruite tante, di 1100 uguali, prima di poterne prendere una per sé. Lesse "Canosa" e si rilassò, si rilassò troppo. D'altronde non sentì nulla. A me mi trovarono la mattina dopo, spezzato e sporco di sangue, e non mi diedero molto peso.

Prima di essere oleandro fui un calabrone. Ronzavo ronzavo, in barba alla fisica, ed ero felice perché non sapevo nulla. Poi un professore ligio alla teoria dovette aizzare un uccello contro di me. Quello mi inghiottì. Mentre mi mangiava ancora ronzavo, ma non ero più granché felice, visto che qualcosa avevo intuito.

Prima di essere calabrone fui un capovillaggio giù nel Belucistan. Avevo pecore, capre e terreni; avevo scavato pozzi, avevo figli e nipoti che mi riempivano gli occhi e il cuore. Ero felice. Un giorno vennero i soldati pachistani, che cercavano non so cosa. Io uscii a parlare con loro, perché ero vecchio, avevo autorità e mai un venerdì ero mancato alla preghiera. Rispetto a Giobbe fui fortunato, perché mi ammazzarono per primo. Quando morii avevo ancora figli e nipoti, capre e pecore e terreni.

Prima di essere capovillaggio in Belucistan fui agave ai margini del deserto, dalle parti di Oaxaca. Da agave rimpiansi spesso di non aver avuto formazione né mente filosofiche, perché di tempo per pensare ne avevo quanto ne volevo. E' anche vero che se fossi riuscito ad arrivare ad una rigorosa sistematizzazione del mio pensiero, esso sarebbe morto con me. Così morii da solo. Non mancano pagine al vostro libro di filosofia.

Prima di essere agave fui una donna, curiosamente sempre dalle parti di Oaxaca. Meglio: una donna, lo sarei diventata se non fossi morta di febbre a 12 anni. I miei fino ad allora mi avevano sempre impedito ogni lavoro pesante, avevano tenuto distante da me ogni minaccia ed ogni preoccupazione. I miei occhi scuri avevano visto solo giochi e le mie gambette non erano mai state gravate di pesi. Non un solo giorno della mia vita fui infelice.

Prima di essere un abbozzo di donna ad Oaxaca fui un'anziana donna a Marienburg. Lo so che per diventare anziana dovetti prima essere bimba, giovinetta, donna; ma a me sembrava che quella vecchiaia eterna non avesse avuto inizio, che i miei capelli sbiaditi non fossero mai stati biondi. Ricordo solo che il mio Jörg non tornò da Waterloo. Ma non mi lamento per questo, perché non tornarono in tanti. I suoi lineamenti si sarebbero dissolti nella nebbia di queste paludi, se -previdente- non li avesse lasciati a Haro, Erich, Hanno ed Antje. Per non vedere lacrime nei suoi occhi viola non feci mancare nulla a nessuno dei miei figli: Haro, l'unico a poter ricordare il volto di suo padre, volle andarsene da queste terre. A Berlino, parla e scrive di pace ad altri illusi come lui. Erich è a Schlochau, ha numerosi figli belli e forti, ha insegnato loro un mestiere. Antje è salpata per Riga, è moglie di un pastore, i suoi occhi sono diventati grigi quando ha compiuto quattordici anni. Hanno ha ricercato il fantasma di suo padre, che non l'ha mai tenuto in braccio, nelle fortezze e negli accampamenti. Mi hanno detto che a Sadowa il suo braccio non ha tremato; sul Reno è stato selvaggio nell'attaccare i francesi. Così mi è parso di capire, perlomeno, perché le mie orecchie non sentono quasi più. Le mie gambe però non hanno mai perso la forza e sono avvezze a trascinare il peso di quattro figli; nessuna faccenda di casa o di campagna vale a spaventarle. Questo l'ho creduto finché un giorno la legna non mi è parsa troppo gravosa, presso un sentiero percorso mille volte. Sono caduta con la faccia nella neve, come cadde il mio Jörg, sessant'anni fa, sulla terra impastata di schegge e sangue.

Prima di essere una vecchina a Marienburg, fui una tartaruga gigante nel Pacifico. Credo di aver vissuto cento anni e di aver visto navi di ogni foggia navigare ed inabissarsi. Forse ero sulla spiaggia quando Cook scoprì l'Australia, giusto qualche decina di migliaia d'anni dopo che l'avevano scoperta gli aborigeni. E' possibile; tuttavia, checché ne dicano i naturalisti, le tartarughe vivono, non ricordano, quindi sinceramente non saprei che dirvi.

Prima di essere tartaruga gigante fui un gatto su una nave delle Province Unite. Mi presero da una cucciolata di pulciosi a Leida; un marinaio che andava ad arruolarsi voleva compagnia per il viaggio fino alla capitale. I miei fratelli, se sono vissuti, non hanno visto che le ossa schifose lanciate dalle puttane, ossute anch'esse e quasi altrettanto disgustose all'olfatto. Io ho visto Amburgo, che persino noi gatti che non distinguiamo il rosso e il giallo capiamo perfettamente, grigia com'è nel cielo, nel mare, perfino dentro chi ci vive. Ho dormito sul grano caricato a Riga, e poco ci mancava che non mi scaricassero a Lubecca e finissi col diventare un gatto grasso e pigro a Travemünde. Ho imparato a non aver paura quando lanciavamo tuoni di fuoco ad altre navi, e le fiamme riverberavano sull'oceano e sembravano volerlo estinguere. Lì un po' mi è dispiaciuta, questa cosa del non vedere il rosso. Certi giorni in cui il caldo sembrava squartarmi il pelo corto e grigio, ho visto che portavano persone nella stiva dove di solito io me ne stavo tranquillo con la scusa di cacciare i topi; ho visto che a decine ne finivano in acqua, ogni giorno, nudi e maleodoranti di morte e di sofferenze. Ad Ormuz mi hanno portato una gatta grande il doppio di me, con il muso schiacciato ed un buffo pelo folto come i pellicciotti dei signori di Amsterdam. Mi sa che era rossa anche lei. Ho visto dei pesci giganteschi, che lanciano acqua fin sul ponte delle navi. Altri cento pesci diversi li ho mangiati, ancora guizzanti. Se mi bagnavo, avevo il permesso di stare un paio di giorni in cabina con il capitano. Lì c'erano certi disegni del mare che solcavamo e delle terre che avevamo lasciato: una volta ho trovato Leida! Sono salito sul tavolo e mi sono fatto accarezzare, per leggere i disegni prima che il capitano li mettesse da parte. Ma sembra che su queste carte i gatti non vengano presi in considerazione. Poi un giorno ho visto dalla balaustra una strana ombra nell'acqua chiara: un pesce quasi rotondo, con delle buffe pinne corte corte, che nuotava placido. Mi ha stupito così tanto, quel pescione, che sono caduto in acqua per un movimento brusco della nave (da cucciolo non mi sarebbe mai successo). Ero vecchio e stanco, e non ho aspettato che Jan il frisone si buttasse per me. Però Jan mi ha ripreso. Riposo in una piccola baia di un'isola verde che dava acqua agli olandesi. I miei fratelli pulciosi e la mia mamma grigia sarebbero fieri di me.

Prima di essere gatto a Leida, fui un albero di sandalo alle Hawaii. Non vi tedierò con la mia noiosa vita. Solo un giorno scorsi, lontano, un monte che spesso brontolava esplodere e vomitare fuoco e fiamme. E questa visione rara e spettacolare fu l'ultima cosa che vidi. Equo, secondo me.

Prima di essere albero di sandalo alle Hawaii fui un cane bianco con una macchia marrone sul muso. Il posto dove vivevo si chiamava Antrim. I miei padroni erano servi degli O' Neill; il mio preferito era il giovane Aodh, che aveva le fiamme negli occhi. Quando Aodh partiva per combattere per il suo padrone, io gli abbaiavo dietro fino al bivio per Armagh, dove si riuniva agli altri galloglas e non aveva più bisogno di me. Quando tornava, io sentivo il passo e l'odore del suo cavallo e lo accoglievo felice. Un giorno sentii un cavallo che non era il suo, poi altri dieci e venti; e un odore forte, di morte data e ricevuta, di morte stantia. Volli fare il mio dovere di cane e corsi al bivio per Armagh. Gli Inglesi mi colpirono per gioco, proprio sul marrone della macchia.

Prima di allora non ricordo nulla.

Nota dell'angelo custode: vivendo si accumula sofferenza. Non biasimate chi vi impedisce di portarne troppa.

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18 novembre 2006

Nimm mich mit, Gatty-boy

Gattuso in Bundesliga, das wäre doch phantastisch, auch wenn er bei den Scheiß-Münchnern spielen würde.

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17 novembre 2006

Una novella per bambini (e nani)

Il sole scendeva lento su Senigallia. Più lentamente ancora saliva la marea. I gabbiani sciamavano in mille gruppi al porto canale, alla foce del Cesano, intorno ad un paio di sacchi dell'immondizia mal chiusi, ovunque si presumesse la presenza di cibo. Gli uccelli lanciavano i loro versi stridenti sulla città assuefatta che neanche li sentiva.
Una coppia di uccelli se ne stava su un muretto dalle parti dei Portici; avevano risalito il Misa e avevano trovato un posto tranquillo per discutere dei fatti loro.
Il primo disse:"Oh, senti questa Gionata, questa è bella: gem davanti al Dom, spettam le marangane che sgappan dala Messa e je cagam sula testa! Bell'idea, no?"
"Non so. Non ne ho tanta voglia".
"Ho capit'. Spe', fam cuscì: spetam che sgappan dala Messa, boccam ntel Dom e cagam in testa ala statua de Papa Mastai Feretti*. Questa è bella, no?".
"Veramente non mi convince neanche questa".
"Alo' co' voi? Cagam in testa a Fabri Fibra? Ce sto, anche se Mr. Simpatia è 'n gran disc'".
"Ma la vita non è solo cacare...". Il gabbiano Gionata Staffolani guardò un punto lontano davanti a sé, mentre ascoltava con sorpresa i suoi stessi pensieri. "E poi, se vuoi la verità, sono stanco di volarmene sopra Senigallia".
"E do' cazzo voi gi'? El gabbia' s'nigajes' è fatt' per sta' a S'nigaja. E po' sa quela trippa che t'artrovi non arivi manc' a Ostra. Vara, m'hai rott' i cujo', fatte da' ntel cul". Disse così e volò via, planando spericolato a pochi metri dal fiume.
Gionata sospirò. Da qualche tempo quell'idea assurda lo rodeva. Gli sembrava impossibile che la sua vita fosse limitata a quella città, quelle piazze, quegli scogli, quella spiaggia che sembrava infinita agli umani e che a lui era venuta a noia da un pezzo. Era condannato davvero a finire la sua vita tra quei compagni che non riconosceva più e quegli orizzonti che giudicava angusti? Gli pareva che tutti gli uccelli di Senigallia stridessero contemporaneamente "Tant'è a cul'mo'!", in risposta alla sua muta domanda. Ma lui non poteva accettare quella sentenza.

(1. Continua).

*le opinioni anticlericali del personaggio non sono necessariamente condivise dall'autore.

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Chuck Palahniuk presenta:"Le regole della casa del sidro"

Prima regola della Casa del Sidro: non parlate mai della Casa del Sidro.
Seconda regola della Casa del Sidro: non dovete parlare mai della Casa del Sidro.
Terza regola della Cas...


Ah no, aspetta, ho fatto un casino. Scusa scusa scusa, ora metto tutto a posto.

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14 novembre 2006

La partita per nulla interessante della settimana

Inauguriamo oggi una nuova rubrica dedicata alla manifestazione più evidente della malefica potenza del demonio che è dato osservare su questa terra: il girone B della C2. In particolare. diamo spazio a Bellaria-Sansovino, match di metà classifica dell'undicesima giornata di campionato. Ma diamo la parola al nostro inviato a Bellaria, Luigi Facta (sì, quello del governo Facta).

***

Una buona giornata a tutti voi, gentili radioascoltatori, dallo stadio "Martiri di Edwige Fenech" di Bellaria, da cui si diffonde per l'etere la mia voce. Si affrontano oggi sul prato verde -dove nascono speranze che si chiamano ragazzi- le compagini del Bellaria padrone di casa, in elegante completo azzurro cielo, e il Sansovino, dall'eccentrica tenuta arancioblù di gusto oltremontano. I 139 spettatori presenti [giuro, l'ho letto sulla Gazzetta] compongono una vibrante scenografia afferrando ognuno la regione genitale del proprio vicino e intonando inni al dio Merib-Baal. I due undici, che formano conseguentemente i ventidue in campo, si girano verso i reporter per le foto di rito. Scattano le braccia nel saluto nazista, in ossequio alle nuove norme contro l'utilizzo di simbologie e comportamenti di tipo fascista sui campi di gioco. La pretestuosa protesta portata appresso da un pugno di negri è vigorosamente repressa dalla forze dell'ordine, nelle persone della pattuglia dei CC della locale caserma assegnata alla vigilanza sugli spettacoli sportivi e formata da Mancuso Carmine, Mancuso Giuseppe (il quale non è fratello né tampoco parente dell'altro Mancuso, giacché Giuseppe è originario di Ruvo delle Puglie, mentre Carmine discende dall'antica casata polacca dei Mankusow, presente ad Ariano Irpino da meno di un secolo), Copertino Salvatore (che invece è fratello del secondo Mancuso, ma la madre ha preferito non metterlo mai al corrente de' suoi disinvolti costumi) e Bersellini Egidio. Di buona lena essi riducono al silenzio gli africani e le loro strida razziste contro la civiltà teutonica. Ma veniamo al gioco, che si sviluppa gagliardo all'altezza della metà campo. Mulinano e randellano le muscolose leve degli atleti; di tanto in tanto cadono a terra or gli uni or gli altri, falciati dall'altrui vigore. Al decimo minuto l'arbitro introduce anche il pallone, precedentemente obliato nel segreto degli spogliatoi. Un "ooh!" di ammirato stupore prorompe da' petti degli spettatori; uno, il maestro elementare Tognozzi, ha un lieve mancamento. Prontamente soccorso dal locale presidio medico, cesserà di vivere in serata, bestemmiando serenamente il nome del Signore e sottoponendone i santi prediletti a mille improperi malmeritati. La comparsa del pallone nell'habitat della C2 provoca un subitaneo adattamento nelle forme di vita in campo: taluni si spostano verso le aree di rigore, assumono postura uccellesca e guizzo rapace, e si dedicano intieramente al lancio -mediante pedata di immaginifica potenza- del cuoio verso la rete avversaria; rete che fu sottratta nottetempo al peschereccio Simona, data l'allentata guardia del marittimo Baldelli, in preda a' fumi dell'alcool. Altri cambiano spontaneamente il colore della muta, e spunta sulle loro mani una spessa coltre di pelle bovina, detta guanto da portiere. Compiendo a ritroso il cammino che portò i nostri antenati alla civiltà, essi si dondolano come bertucce ai legni e ribattono con urla belluine i fendenti scagliati dai forward avversari. L'anziana madre dell'orangotango romagnolo, Spadaccini Vera coniugata Spitoni, subisce un leggero malore. Repente intervengono i sanitari: essi la recano al nosocomio riminese, dove alla donna sarà diagnosticata un'eruzione cutanea in forma di àncora, certo cagionata dalla vergogna. Si susseguono come i flutti sulla spiaggia bellariese, color dell'ocra e disprezzata da' villeggianti, gli attacchi dei sansoviniati. Talora l'azione è accompagnata dal pallone, rilanciato con spregio verso il fortilizio locale; più spesso essa si risolve invece in corse sghembe verso nessun luogo, sospinte e rese folli dalle fantasiose ingiurie partorite dal vivace pubblico di casa, ora del tutto alieno da nefaste influenze abissine. Sulla panca di torrone mandorlato siede il mister dei sansovinici, Beoni: egli osserva con malcelata soddisfazione la schietta carnalità de' suoi gladiatori, mentre sorseggia un Don Bairo. L'arbitro Fatta di Palermo tiene fede all'imparzialità propria del suo ruolo scalciando a tradimento toscani e romagnoli. Il pubblico ne loda la metodica ferocia con motti di spirito. Il quarto uomo, monsignor Criscuolo di Nocera Superiore, indica all'attenzione del referee Jidayi del Bellaria; questi non è di confessione cattolica, come confermano il nome e la propensione genetica all'imbroglio, classica ne' levantini. Interrogato dal Fatta, il moro tergiversa; rifiuta poi di baciare il crocifisso tratto di tasca dal direttore di gara. Il Saraceno è allora espulso e accompagnato a bordo campo dalla milizia. Tenta la fuga, ma viene acciuffato e assicurato a' ceppi. Portato in seguito sul peschereccio Simona, è posto al remo dal marittimo Baldelli, che in cambio ritira la denuncia contro ignoti per il furto delle sue reti. Intanto il pesce marcisce alle spalle di Spitoni e Chiaverini; con rabbia ferina, costoro addentano spesso le prede viscide e sfuggenti, ma impediscono senz'altro a' propri compagni di fruire a loro volta del fosforoso pescato. Intanto Fatta segna la fine della prima frazione di gioco; le squadre rientrano negli spogliatoi, dove li attende un gustoso brodetto di mare, vanto delle tavole romagnole. Cucinato dal già troppo spesso nomato Baldelli, esso è privo di pesce, per ragioni che non possono essere esposte in questa sede. Vi è mare in abbondanza, tuttavia: e anzi Quondamatteo del Sansovino soccombe all'elevata salinità, cadendo a terra e ricevendo dal severo impatto danni cerebrali non necessariamente permanenti. Ricoverato al centro grandi ustionati di Cesena, qui è bruciacchiato con degli accendini dal personale paramedico, al nobile scopo di giustificarne la degenza in tale luogo. Nei giorni successivi è ceduto dagli infermieri al Poggibonsi; la somma intascata per il cartellino è investita, la sera stessa, in donne di strada. Frattanto a Bellaria l'arbitro dichiara aperte le ostilità del secondo tempo, dopo aver personalmente ricondotto sul rettangolo di gioco i ventuno, con calci e male parole, volte quest'ultime ad infiammare l'ardore agonistico de' ginnasti. Il pubblico accoglie le squadre in campo con una mirabile coreografia: cala sui presenti un telone raffigurante il momento centrale del Ragnarök, in cui il lupo Fenrir fa scempio delle carni di Odino. Gli inni dei Freikorps slesiani conferiscono solennità alla cerimonia. Il tempo inizia con un netto predominio dei padroni di casa, fatto di dita negli occhi degli avversari, colpi bassi e altre finezze importate di recente dal Brasile e da altre terre infestate dal terrore e dal sottosviluppo. Ciononostante il pallone non vuole saperne di entrare. La ricerca del punto diviene sempre più stanca e sfibrata; tuttavia il pubblico incita i propri beniamini, accostando al nome di ognuno un particolare supplizio (esempio: Armento, garrotato; Gomez, sventrato e decapitato). I giocatori rispondono al saluto con il tipico gesto del pugno sui coglioni. A quella vista, del tutto insostenibile per uno stomaco delicato, il tipografo Marmugi si sente venir meno; trasportato per motivi ignoti al carcere femminile di Villa Fastiggi a Pesaro, nella notte dà alla luce tre gemelli. L'allenatore dei romagnoli, Fabbri, prova intanto a cambiare le carte in tavola evocando demoni assiri, con l'aiuto di tavolette cuneiformi razziate al museo di Baghdad dalla superiore democrazia occidentale, e poi mandando sul terreno di gioco Valentini e Mazzotti, che già pensavano alle comodità del talamo ed entrano in campo con i pantaloncini abbassati. Lo sbandamento provocato nella difesa del Sansovino è grave ma momentaneo; essa si dispone a schiltron e ributta fino al novantesimo ogni assalto dei padroni di casa. A quel punto Fatta fischia la fine e invita i capitani a stringersi virilmente la mano. Qui a Bellaria siamo stati testimoni di un bel pomeriggio di sport; e mentre in campo fervono i tentativi degli inservienti di catturare o rendere inoffensivi i due portieri, noi calorosamente vi salutiamo. Alla prossima giornata del campionato nazionale di calcio di Serie C2 girone B.

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10 novembre 2006

Soddisfacente mercimonio in un pomeriggio caliginoso

Ero lì che parlavo ad una capra, quando sentii per la via una voce metallica ed un rombo di motore che si avvicinava. Che fosse...? Tesi l'orecchio. "Donne, uomini ed ambigui", gracchiava l'altoparlante, "è arrivato lo storiografo! Compro nonni e altri parenti storicizzabili, scrivo Annali di famiglia (anche menzogneri), vendo e scambio reliquie e memorabilia...".
Ottimo! Era arrivato il venditore di cimeli sul suo Ape Cross con cassone laminato. Chiusi Skype, tanto quella capra non me l'avrebbe mai data, e corsi in strada.
"Scusi, scusi!", mi misi a gridare mentre cercavo di farmi vedere negli specchietti dell'Ape che arrancava in salita.
Il mezzo frenò bruscamente. Il cassone produsse un cupo clangore, come di Lance Sacre che si ribaltano e sbattono tra di loro.
Lo storiografo, storiomane o come lo si vuol chiamare (ma mai storione, altrimenti sarebbe diventato ricco semplicemente vendendo le proprie uova), saltò con agilità dall'Ape. Era vestito come uno degli Immortali della guardia degli Imperatori Achemenidi: lunga veste finemente decorata, arco a tracolla e faretra sulla schiena. Inoltre fumava una pipa di radica.
"E la lancia?", domandai, sinceramente stupito da una tale imprecisione storica.
"Nel cassone", mi rassicurò. "E' troppo lunga per tenerla davanti, finisce sempre che mi blocca l'acceleratore. Ho già sfasciato tra apetti in questa maniera (e per fortuna Ahura Mazda mi ha sempre protetto!). Difatti stavo pensando di vestirmi da cavaliere teutonico, ma poi non vedo la strada".
"Capisco. Senti, che roba hai?".
"Eh, giovane, ho un po' di tutto! Metti delle note a pié di pagina, disambigua, insomma sii un po' più preciso!".
"Non so, tra qualche giorno è il compleanno della mia ex. Stavo pensando di regalarle qualcosa di carino, per dimostrarle la mia stima immutata".
"Beh, ho una statuetta del demone Pazuzu, che porta gaggia anche solo a rammentarla. Ecco, c'ho pensato e m'è venuto un crampo al piede".
"Ti dirò: non è male come idea. Però va bene un bel ricordo, ma donarle un tale gioiello dell'arte mesopotamica mi sembra troppo. Non vorrei si facesse strane idee".
"Ho una palla di vetro che tu la giri e nevica sugli ontani, sulle morene, sulle paludi, sui boschi di conifere e sull'audacia sconsiderata del Generale Samsonov. E sotto una bella scritta Saluti dai Laghi Masuri. Alle donne piacciono queste cose".
"Ma ai Laghi Masuri perse Rennenkampf. Samsonov fu battuto a Tannenberg (II, la vendetta)".
"Tanto le donne sono ignoranti".
"Questa no. Questa parla ittita e gioca a squash".
Il vendistoria dava segnali di nervosismo. Si soffiò rumorosamente il naso con una bandiera presa ai Turchi a Lepanto. Decisi di toglierlo dall'imbarazzo.
"Senti, fare un regalo ad una donna è sempre una cosa complicata. Ci penso su e ti faccio sapere. Intanto mi è venuta un'idea: dammi qualcosa che mi garantisca la fortuna e l'invincibilità. Io mi faccio un bel dominio personale in Europa Centrale, così risolvo tutti i miei problemi, non ho bisogno di farmi una pensione integrativa e becco cocchia a nastrella. Il potere attira sempre, me l'ha detto Paolo Fox".
"Uno dei peggiori presidenti nella pur travagliata storia messicana, ma sul punto specifico ha ragione. Se vuoi andare sul classico, c'è il vecchio calice di Giuseppe d'Arimatea. Però devo ordinarlo".
"Mmh. Quanto ci vuole perché arrivi?".
"Il sito riporta sempre tre giorni, ma se vai a guardare bene le scrittine in piccolo vedi che i tre giorni sono se disponibile in magazzino. Non c'è sempre. Io ne ho ordinati due assieme un po' di tempo fa, stesso modello: uno m'è arrivato in tre giorni e uno in tre mesi!".
"Ok. Poi sarebbe un po' troppo banale, no? Voglio dire, sembra che mi metta a seguire la moda".
"Che ne diresti della spada di Marte? Usata pochissime volte, seppellita nella steppa pannonica dopo il funerale del legittimo possessore, protetta da tre sarcofagi di metallo e -particolare non trascurabile- dall'eccidio di tutti i convenuti alla cerimonia".
"E a te chi te la trova?".
"Ah, va bè, c'è una ditta di Erlangen che fa questi lavoretti. Si chiama Totenkopf Suchenagentur (una divisione della Siedlungsarchäologie), lavora dal 1934 alle dipendenze dei peggiori pazzi e dei loro deliri. Si sono già macchiati di numerose profanazioni, volevo dire: hanno effettuato scoperte notevoli. Una in più, una in meno, per loro non è un problema".
"Ok, perfetto. E quanto verrebbe?".
"59,99, ma me li devi dare ora. E poi, se fai un altro acquisto, per Natale ti diamo l'albero sacro dei Sassoni, da decorare con i simboli che più preferisci".
"Con il sangue di San Bonifacio?".
"C'è un sovrapprezzo, ma è roba di pochi euro".
"Oh, allora siamo d'accordo. E' sempre un piacere fare affari con te".
"Allora alla prossima, per la consegna. E ti auguro un felice regno di terrore e sopraffazione".
"Grazie a te!".
Rise, schernendosi quasi per abitudine. Salì sull'Ape e se ne andò lento e rumoroso come era arrivato. Il tramonto incorniciava un giorno nebbioso dell'anno 2006 dell'era Cristiana; io tornai in casa, a prepararmi würstel con la senape. Manca poco a Natale, pensai quasi a voce alta, ora di pensare alle decorazioni. Quest'anno al Presepe ci faccio arrivare un paio di berserker, tanto per ravvivare l'atmosfera.

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08 novembre 2006

Sarebbe stato bello

Gattuso ebreo in effetti mi mancava. Finalmente capisco un paio di ingressi in questo sito con strane chiavi di ricerca. Il vento è come la lontananza, invece, mi rifiuto di capirla.

P.S. Auguri di rapida guarigione al nume tutelare. Che Jahvè vegli su di lui.

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Breve guida al Manchester City

Mi giungono spesso (o mai, ora non ricordo con precisione) mail di questo tenore:"Che ne pensi del Manchester City? Non ritieni interessante il Manchester City? Perché non ci parli del Manchester City? Come si spiega che il cotone nel mio ombelico è sempre blu, anche se porto la canottiera bianca?". Bene, mi avete convinto: oggi parleremo del Manchester City. Il Manchester City è un club di calcio della città di Manchester, come dice il nome stesso. Ha maglia azzurro cielo e calzoncini bianchi (nella foto esplicativa, appaio con la suddetta maglia; a causa della legge sulla privacy il mio volto è coperto da una creatura del demonio*).


Il Manchester City, pur essendo una squadra di secondo piano nella storia del calcio inglese e anche nel suo presente, vanta diversi tifosi illustri: tra essi ricordiamo il gruppo pop degli Oasis, Pietro Bembo e la salma di Anwar al-Sadat, il quale, com'è noto, non a caso era nato da madre anglo-egiziana. Da quando è deceduto a seguito di un attentato di matrice islamista, il 6 ottobre 1981, il presidente egiziano -precedentemente assai impegnato negli affari di Stato- trova quasi sempre il tempo di presenziare alle partite della sua squadra del cuore. Si può anzi sostenere che sia visto ormai come un habitué dai tifosi dei Citizens che si recano al Manchester Stadium o, fino al 2003, al glorioso Maine Road. E la puzza? Direte voi. Bè, è vero che in vita gli era consueta la minuziosa igiene degli arabi, ma col tempo ha fatto l'abitudine all'allegra mancanza di pulizia degli inglesi, e forse ha imparato che non è da questi particolari -semplici sovrastrutture- che si può giudicare l'anima di un popolo. Beh? Che sono quelle facce? Trovate strano che un club abbia tifosi in putrefazione? Secondo me è più strana una squadra di calcio che apre agli omosessuali (hier ist die selbe Nachricht auf Deutsch, von einem ziemlich lustigen Bild eines Cool-Schwul begleitet, verfügbar). E poi nel 1970, sotto il dolce cielo viennese e ad un passo dalla ruota del Prater, il Manchester City ha vinto il suo unico trofeo europeo, la Coppa delle Coppe, battendo in finale i polacchi del Gornik Zabrze**. Solo per aver impedito ad una squadra polacca di intristire l'Europa con la sua eventuale gioia rafferma, il Man City va ringraziato ogni mattina. Con ciò si conclude questo post, le campane già salutano la fine e le api vi ronzano intorno per mandarvi via. Alla prossima parleremo degli Wolverhampton Wanderers, o della Reggiana.

*un po' come la donna, ma senza creme depilatorie.
**dolce melodia di gessi nuovi su lavagne di rovere.

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07 novembre 2006

Molto dentro, la notizia

Il fatto, grossomodo, è che la Casa delle Libertà ha vinto le elezioni regionali in Molise. L'interpretazione che se ne vuol dare, come si sa, è libera. Qui in redazione, che non è dove ho scritto il post di ieri, abbiamo raccolto e trascritto il modo in cui due telegiornali nazionali hanno chiosato la stessa notizia.

[TG4] ...Scusami se ti interrompo, ma è arrivato il dato ufficiale del Molise. Vedremo in seguito com'è finito il rapimento di Kofi Annan ad opera di George Bush. Adesso passiamo alle cose serie ed importanti: la Casa delle Libertà trionfa in Molise. Spetta sempre ai piccoli popoli tenere alta la bandiera della libertà: come a Bannockburn, come a Courtrai, come alle Termopili, le schiere sannite hanno respinto l'invasore persiano, feudale e comunista. Non è un caso che Attila voti da sempre per l'Unnione. E non si creda che questa piccola regione sia priva di significato: i molisani sono pochi perché essere molisani è un privilegio. Inoltre, sono apprezzati in ogni angolo del mondo: basti pensare che di 327.637 aventi diritto al voto, quelli residenti all'estero sono 45 mila. Sono o non sono richiestissimi? L'importanza del Molise è tale che se esso non ci fosse, il mare si insinuerebbe nel nostro paese -ossidandolo- e impedirebbe ai ragazzi di Foggia di andare a trovare le loro ragazze a Chieti. Non è un caso che il programma dell'Unione preveda esplicitamente l'affondamento del Molise (a pagina 666), per spopolare il nostro paese e consegnarlo ai negri. Saputa la notizia della disfatta nel Molisannio, Prodi -che come ogni lunedì pomeriggio stava violentando fanciulle e animali di sentimenti liberaldemocratici- ha immediatamente perso l'erezione e si è gettato affranto su una poltrona di pelle di moderato, reclamando con la sua voce fessa e incomprensibile un calice di cicuta. Purtroppo Parisi non gliel'ha data, non sapendo cosa fosse. Ah, mi giunge un aggiornamento: né Hitler né Stalin erano molisani, e neanche Capezzone lo è. Si può far finta che questo non significhi nulla, o si può guardare in faccia la realtà. Sappiamo già come si comporterà il governo.

***

[TG3] E quindi alla fine le chiavi della macchina non le trovavo perché le avevo lasciate negli altri pantaloni. Per fortuna un deputato del centrosinistra mi ha suggerito di guardare con attenzione nelle tasche. Il commissario europeo Almunia si è congratulato con il governo Prodi per aver brillantemente risolto la questione. Passiamo ora alla prossima notizia: sembra che sia in arrivo un fastidioso raffreddore degli insetti. Ah no, mi sono sbagliato, è il risultato elettorale del Molise. In quelle plaghe desolate, che sembra portino anche sfiga a chi le governa, Silvio Berlusconi e i suoi complici confermano il loro governatore. Con ciò, implicitamente, viene confermato anche il sottosviluppo della regione. Ci sono delle ombre sul voto, però: secondo osservatori indipendenti, quali i cugini di Di Pietro e un mio amico immaginario che mi fa tanto ridere, 45 mila molisani onesti -dunque di sinistra- sarebbero stati spinti in esilio dalle prepotenze della destra. Vorremmo continuare con le analisi sul voto del Molise, ma purtroppo dobbiamo chiudere qui. Infatti, avevamo chiesto un commento sulla questione ad un giornale internazionale specializzato in notizie di nessun interesse e fatti ridicolmente minori, tuttavia ci è stato risposto che non reputavano la cosa degna di attenzione: quando un bambino cadrà sulla ghiaia sbucciandosi un ginocchio, allora potremo disturbarli. E ora le ultime dal Fantabosco.

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06 novembre 2006

Meraviglie del wireless

Niente, mi piaceva scrivere un post stando al cesso.

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02 novembre 2006

Ortaggi di un mondo crudele

Il ravanello aveva appena bussato alla porta della stanza che subito entrò, trafelato. Il commissario lo guardò con severità. Il fatto che lui trattasse i novellini con gentilezza, e forse con una certa pietà per quel lavoro che si erano scelti, pietà che ad alcuni pareva una sorta di tenerezza paterna, non avrebbe dovuto autorizzare né la giovane primizia rubiconda né chiunque altro a prendersi queste libertà. In fondo agli occhi lo accolse con stanchezza, in ogni caso: sapeva che quell'ingresso irrispettoso significava un'altra notte insonne, lontano da casa. Probabilmente sua moglie aveva dimenticato del tutto il calore delle sue radici che un tempo la scaldavano nel letto, o forse non ci aveva mai contato troppo: le mogli degli sbirri sanno come va. Indubbiamente lo sapeva anche lei, che la luna di miele non sarebbe durata a lungo. Questi pensieri assurdi erano figli del disincanto e della rabbia sorda del poliziotto, più che di un qualche percorso razionale. Lui lo sapeva, e si arrabbiava con se stesso.
"Ehm, Commissario...?", disse finalmente la recluta.
"Cos'è successo?", rispose quello, e già stava riassettandosi le bretelle per uscire. La fondina, quella era sempre rimasta al suo posto.
"Sembra che sia successo qualcosa di brutto nella Città Sud".
"Qualcosa di brutto? Davvero?", ghignò l'altro di rimando. "Già. Sembra che nessuno ci chiami mai ad una festa. Solo cose brutte per gli sbirri!", biascicò svogliato e inutilmente triviale. Si alzò dalla sedia, andando verso lo spolverino che aveva comprato tanti anni prima, da studente.
Il Commissario Carota non era stato sempre quel solido monumento al cinismo che i suoi colleghi conoscevano. C'era stato un tempo, a lui sembrava un milione di anni fa, in cui il suo cuore pulsava di passione e di speranza. Era la gioventù, certamente, che prende in giro tutti: ma era anche la sua ingenua fiducia nel mondo. Aveva spianato con sicurezza perfino irrisoria tutte le difficoltà che gli si presentavano davanti, negli anni dell'Accademia, e si era gettato in quel lavoro con una forza inaspettata, una forza che ora non riconosceva più come sua. Adesso si guardava e si vedeva esangue, quasi che le delusioni -o forse è più corretto chiamarle le esperienze di vita?- gli avessero cavato il suo stesso carotene, lo avessero devitaminizzato come una cottura di molte ore. Gli sembrava perfino ingiusto infilarsi l'impermeabile decisamente liso, ma di una certa elegante sobrietà, che a suo tempo aveva fasciato il giovane entusiasta che gli aveva lasciato il posto. D'altra parte gli sbirri non fanno shopping: fanno loro difetto il tempo e i soldi. Forse il prossimo Natale sua moglie gli avrebbe fatto un regalo, e si sarebbe potuto buttar via quel capo odioso.
La tangenziale scorreva rapida sotto di loro. Il commissario guidava e la recluta osservava avida le luci della città. Il poliziotto più anziano ormai era interessato solo alle zone oscure. Sapeva per esperienza che erano le più interessanti e soprattutto le più vere. Era all'ombra di sinistri palazzoni che succedeva tutto.
"Siamo arrivati alla Città Sud", disse il Commissario, "e quei lampeggianti fanno pensare che abbiamo già trovato anche la via giusta".
Si fecero largo tra viscidi lupini e porri ottusi, giunti lì per ammirare la scena o forse appena usciti dal locale male illuminato che si ergeva davanti a loro.
"E' un locale notturno", rifletté il ravanello, impallidendo chi sa perché.
Il Commissario Carota gli rise in faccia.
"E' un bordello. Questa merda è un bordello. Nella Città Sud non ci sono locali notturni: ci sono solo bordelli", e spinse via degli asparagi che spuntavano curiosi. "Anzi, secondo me non ci sono neanche locali diurni".
Qualche agente del posto di polizia di zona, grosse melanzane dallo sguardo triste, o stupido, o entrambe le cose, cominciò a mulinare i manganelli, con gesto ampio ed abituale, per mandare a letto chi intralciava l'indagine.
Un rozzo cetriolo ebbe la scorza spezzata da un colpo: la linfa gli calava addosso senza che quello se ne desse per inteso. Forse era ubriaco. I suoi amici lo riportarono a casa.
Un poliziotto scortò i due colleghi appena arrivati fin dentro il bordello. L'interno non era né sovraccarico né pacchiano, e per gli standard del quartiere era arduo perfino considerarlo particolarmente lurido. Era un posto normale. Carota rimuginò tra sé che la sua ributtante volgarità stava proprio nel fatto che era così normale. Stava per confessare la sua riflessione al ravanello, ma si fermò. Non avrebbe capito. E poi non voleva mostrarsi debole.
"Commissario, mi segua", fece un cavolfiore dalla larga faccia butterata. "Questa stanza è quella in cui è stato consumato il delitto".
"Come l'hanno...?", esordì Carota. "Voglio dire, che spettacolo devo aspettarmi?".
"Non una bella scena, Commissario".
Carota sorrise, suo malgrado, ed entrò nella camera. Il ravanello volle seguirlo come un cagnolino al guinzaglio, ma non avrebbe dovuto. Al centro della piccola stanza, arredata con il povero gusto di una verdurina appena matura, stavano i brandelli di una zucchina tagliata alla Julienne, con la meticolosità dei criminali. Il ravanello uscì di corsa. Andava a vomitare. La prima volta è normale, Carota lo sapeva. Poi uno si abitua e smette, oppure cambia mestiere. Non si può mica continuare per sempre a vomitare sul lavoro.
Carota non vomitava, ma si sentì invaso da un freddo triste che da tempo non ricordava. Aveva visto decine di cadaveri, forse centinaia, dopo un po' un ortaggio sano smette di contarli: aveva visto propri simili aperti, smembrati, sminuzzati, tritati alla mezzaluna. Aveva visto patate cotte al vapore e pomodori alla parmigiana, nelle truculente vendette della malavita cittadina. Perciò queste cose non le osservava quasi più. Lui guardava i particolari, e questa volta ne era stato colpito con forza: le rozze stampe pseudo-erotiche erano le stesse di ogni locale del genere, ma su un comodino di poco pregio stava un braccialetto di spago, il portafortuna della vittima; e sotto il comò a cassettoni, stranamente antico e bello, la verdurina non aveva fatto in tempo a far sparire del tutto le scarpe di tela, che adesso occhieggiavano ad un metro e mezzo circa dai resti della vittima. Anche sua figlia portava quelle stesse Converse di tela, quelle alte e storiche che c'erano anche nella sua giovinezza di tanti anni prima, e che erano tornate di moda di recente. Una povera piccola verdurina, uguale a mille altre, fatta a pezzi da una furia che non poteva aspettarsi. Carota si avvicinò. Le scarpe erano state infilate sotto il comò con la punta rivolta verso il muro. Slacciate com'erano, presentavano un'apertura piuttosto ampia, quasi del tutto fuorì dalla copertura del mobile. Carota si chinò con delicatezza, e prese in mano le scarpe. Diede loro un'occhiata, scostando le linguette.
Poi uscì, senza posare le scarpe. Il ravanello si era reso di nuovo presentabile e lo aspettava lì nel corridoio, sul quale affacciavano tutte le stanze delle altre verdure. C'erano dei clienti spaesati, rimasti lì a disposizione delle autorità. C'erano le altre, per lo più del bordello, frutti verdi pressappoco dell'età della morta, impietrite dal terrore. E c'era un grosso peperone rosso, seminuda, che fissò con ironica fierezza il commissario. Una volta doveva essere stata l'attrazione della casa, ma cominciava già ad avvizzire.
Il commissario si avvicinò al novizio e gli chiese come si sentisse, con vera tenerezza di cui entrami si stupirono. Il ravanello non rispose e lo guardò, rosso e bianco per l'imbarazzo e per il malessere. In fondo al corridoio troneggiava una porta di legno laccato. Normalmente essa restava chiusa a chiave, perché di lì si andava all'appartamento del tenutario, un anziano carciofo con la pelle quasi del tutto liscia, e della sua famiglia. Era un bordello a conduzione familiare: a suo modo, un posto molto più morale e sicuro del 99% dei luoghi simili. Ora la grossa porta bianca era aperta, perché il proprietario era stato richiamato all'interno dalle urla delle sue dipendenti, che avevano trovato la vittima quando già il crimine era stato consumato. La polizia aveva ovviamente setacciato la casa per controllare che non si trovassero estranei e che tutto fosse in ordine. Ora il carciofo, visibilmente provato ed impaurito, entrò nella stanza di un'altra sua protetta per farsi interrogare. Voleva che i poliziotti lo interrogassero lì, in maniera da chiudere la porta di casa sua e risparmiare quelle brutture alla sua famiglia. Carota guardò negli occhi il vecchio: vide subito quel desiderio, tanto pressante quanto onesto e trasparente, che chiedeva solo di risparmiare ogni stilla di dolore ai propri cari.
Un poliziotto relazionò Carota:"Non abbiamo rinvenuto nulla di strano o di compromettente. Vuole ripetere lei stesso l'ispezione?".
Carota rispose serio:"Agente, conosco la sua professionalità. Posso stare tranquillo, se è lei che ha effettuato la perquisizione".
"Allora posso congedare la famiglia del signor...?". Sulla porta stava la moglie del tenutario con i due figli adolescenti.
"No, perché?". Il commissario sorrise. "Credo che saranno contenti di far compagnia al loro capofamiglia, sarà roba di pochi minuti".
L'interrogatorio si svolse nell'ampio salotto del carciofo. I mobili erano migliori ma non dissimili da quelli del bordello, quanto a stile: forse nell'azienda finivano i pezzi troppo vecchi o quelli che non piacevano più in casa del capo. Il vecchio carciofo liscio era oculato anche in queste cose.
Carota si sedette su una sedia di legno scuro, senza toccare lo schienale. Dei quattro membri della famiglia che gli sedevano di fronte, il vecchio era di sicuro il più impaurito: terrorizzato dalla fine del suo buon nome e del guadagno, tremava senza ritegno. La moglie, ben più giovane e spinosa di lui, era calma, imperturbabile. Il figlio più grande, forse sui diciotto anni, sembrava anche lui teso. O forse posseduto da una qualche inquietudine. Il figlio più piccolo era semplicemente assonnato. Sul suo sguardo di tredicenne non si leggeva l'intelligenza necessaria a capire e a temere una situazione simile.
"Un bell'omicidio", disse Carota. "Spettacolare. Da un po' non vedevo una Julienne".
"Era arrivata da poco. Era gentile con tutti, era carina. Nessuno voleva farle del male".
"Non ne dubito, mio caro. E non dubito certo che per lei una zucchina così giovane e tenera rappresentasse un investimento, anche se è troppo educato per metterla in questi termini. Quanto poi ai clienti, io so che in un luogo così rispettabile e ben tenuto non arrivano i pazzi o i sadici che spesso infilzano le primizie in altri bordelli: nessun avventore dei suoi l'avrebbe voluta morta, e d'altronde non ci sarebbe stato né il tempo né la possibilità di perpetrare un delitto così freddo ed accurato e poi andarsene con tranquillità".
"Ma allora chi...?".
"Vedete, un assassinio del genere non giova a nessuno. Né alla sua buona clientela, che perde un luogo di svago e di ritrovo, né alle ragazze, che di certo non avevano motivi di gelosia (la zucchina era nuova e timida, e poi è noto che qui tutti i guadagni sono amministrati e ripartiti con somma sapienza da Lei, non è vero? Non si litiga per il denaro, quando il padrone ruba anche le mance!), nè di certo al padrone del locale, che vedrà svanire la sua magnifica fonte di reddito".
"Un pazzo! Un pazzo venuto da fuori!". Il carciofo gesticolava, fuori di sé. Carota ne ebbe quasi pietà, poi continuò.
"Sono in disaccordo su entrambe le sue affermazioni. Un pazzo non organizza così bene un omicidio e non riesce a lasciare indisturbato il luogo del delitto. E soprattutto l'assassino non veniva da fuori".
"Non vorrà mica accusarmi...! Ma è un'infamia, una follia!". Il vecchio ora urlava.
"Taccia. Guardi la faccia di suo figlio, piuttosto. Lui non ha perso capitale questa sera, eppure è sconvolto quasi quanto lei, ed in maniera ben più profonda".
L'adolescente rimase attonito; non fece in tempo a protestare con la voce la propria innocenza (gli occhi sbarrati già si dichiaravano estranei), che il padre lo aggredì con furore cieco:"Tu! Ti avevo detto di smetterla di girarle attorno, imbecille! Volevi averla tutta per te ed ora me l'hai ammazzata, non è così?".
"Stia zitto!", tuonò Carota. "Lei non ha mai capito nulla, vecchio cretino. Suo figlio la voleva e l'ha avuta, mentre lei era troppo distratto per notarlo. Ma sua moglie è più attenta di lei, non è vero, signora?".
Tutti tacquero. Nessuno trovò la forza di parlare, questa volta, tranne l'accusata. "Come osa, commissario? Su quali basi mi incolpa di questo delitto?".
"Andiamo, signora! Se perfino un povero scemo accecato dal denaro come suo marito nota il debole di suo figlio per la morta, lei avrà notato di certo anche la relazione... E oggi è andata a chiarire la vicenda. O forse c'era un ibrido in arrivo, e lei aveva già deciso di mettere fine allo scandalo?".
Ora fu la signora a sorridere. "Commissario, lei ha talento, immaginazione e sa narrare. Ma per incolpare qualcuno di un omicidio servono le prove. O vuole tornare a dirigere il traffico nelle campagne degli scalogni?".
"Signora, lei poteva entrare in quella stanza sollevando tensioni in quella verdurina, ma non certo sospetti di omicidio. La poveretta non avrebbe urlato né dato l'allarme e questo lei lo sapeva. Così è entrata a chiedere spiegazioni, poi l'ha colpita approfittando di un attimo di distrazione e mettendole nel contempo una mano sulla bocca: non le ha dato la possibilità di urlare, ma nei suoi ultimi istanti di vita si sarà difesa, o forse solo dibattuta, sfregando la sua tenera scorza contro la sua pelle spinosa. E' presumibile che qualcuno delle sue belle spine si sia spezzata e sia caduta. Ovviamente lei ha avuto il tempo di rimuovere questi frammenti: poteva chiudere la porta con le chiavi di suo marito ed eliminare dal terreno tutte le tracce".
"Dunque le sue prove risiedono nell'assenza di prove? Molto audace da parte sua, commissario!".
Carota si rizzò in piedi. "Grazie. Ma non è propriamente così: vede, lei ha controllato il pavimento con notevole perizia, ma non ha pensato che qualcosa potesse finire in quelle goffe scarpe da ginnastica che portano i giovani. E -guardi un po'- qui in questa scarpa c'è proprio un frammento che si direbbe di zucchina, confitto su una spina di carciofo". E rovesciò il contenuto della scarpa sul tavolo. Il ravanello, che era rimasto immobile fino a quel momento, lo raccolse con le pinzette e con cautela lo mise da parte.
Stavolta fu l'accusata a rimanere muta. Carota le si avvicinò, e le tirò con violenza una foglia, abbassandola fin quasi a strapparla.
"E questa linfa che le è rimasta qui in fondo, non farei spendere tempo e denaro alla nostra Scientifica per sapere a chi appartiene". Carota sogghignava feroce, e incuteva timore anche ai suoi colleghi. "Molto scomodo ripulirsi se si è un carciofo, non è vero, signora?".
"Io... Mi porti in Commissariato, la prego. Là sono pronta a spiegarmi. Qui, davanti alla mia famiglia, sarebbe un'umiliazione che non merito. Ho fatto solamente quello che dovevo". Due agenti fecero alzare l'assassina. Il marito farfugliava qualcosa di irrimediabilmente stupido. Il volto rigato di lacrime del piccolo cominciava invece ad esprimere emozione e dolore, pur nell'ottusità dell'insieme. Abbracciò la madre con forza. Dovettero staccarlo; questa si volse poi al figlio maggiore, che la respinse con un gesto di ribrezzo e lontananza. Carota distolse lo sguardo.
"Portatela via. Io vado a casa, se non avete bisogno di me non chiamatemi".
Uscì. Era l'alba. In macchina, il ravanello osservava i corpi gonfi e lividi sui marciapiedi, che tornavano dal lavoro notturno. Stavolta guidava lui. Taceva. Quella notte era cresciuto, forse.
Carota si fece lasciare piuttosto lontano da casa, perché aveva voglia di camminare. La mattina di inizio novembre gli portò in dono della brina, che gli comparve sul capo quasi senza che se ne rendesse conto. A casa, ancora una volta non riuscì ad evitare di sbagliare le chiavi e di far rumore nell'entrare. Poi si diresse verso la camera della figlia, che dormiva ancora del sonno dolce e pesante che dormono gli adolescenti, pochi minuti prima che la sveglia venga a rapirli al mondo della luce.
Osservò i suoi bracciali sul comodino e le scarpe di tela -dovrebbe mettere le altre, siamo in novembre- ai piedi del letto. Si chinò a baciarla. Sua moglie gli si avvicinò da dietro, un po' stupita e un po' intenerita.
"Amore", gli sussurrò, "è quasi mattina. Devi essere distrutto. Ora vado a prepararti un po' di colazione".
"Aspetta", fece lui stringendole piano un polso, "torniamo a letto. Ho i piedi gelati".

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